C’è qualcosa nella polemica sul velo islamico nella scuola che non mi convince. Mi rende perplesso il fatto che si parla del come andare abbigliati a scuola, se indossare o meno un capo di vestiario, anche di alto valore simbolico, ma non della scuola stessa.
Eppure non mi sembra che la scuola italiana abbia una grande efficienza educativa o un elevato livello formativo, sia in grado di far acquisire spirito critico e capacità di analisi nei confronti di una realtà sempre più complessa e di difficile interpretazione.
Si direbbe che tutto questo non interessi, soprattutto a chi con forza chiede la possibilità di portare lo chador per le studentesse, quale elemento caratterizzante un abito non solo esteriore ma anche interiore. Dovrebbero invece preoccuparsi molto di una impostazione scolastica ancora largamente eurocentrica ed etnocentrica, di un approccio culturale incentrato su sistemi di valori prevalentemente occidentali, di un orizzonte simbolico limitato ed escludente, di una scuola ancora largamente classista, selettiva e discriminante, non sul piano del sapere ma su quello dell’appartenenza sociale.
Non mi sembra che si sia avanzata una tale critica e una richiesta conseguente, se non magari quella di poter gestire separatamente scuole che propongono di fatto e praticano le stesse finalità, ma di segno culturale totalmente opposto.
Intravedo in tutto questo una concezione della scuola come puro contenimento di energie giovanili, indottrinamento culturale ed addestramento sociale, condivisa sia da chi è contrario al velo, per purezza ideologica e omogeneità etnica, sia da chi ne chiede il possibile uso, in una simmetria inquietante.
Mi viene da pensare che non dispiacerebbe a nessuno tornare alla condizione della scuola italiana negli anni sessanta, di cui ho vivi ricordi liceali, quando a noi maschi era imposto portare la giacca, sempre e comunque e per le femmine era obbligatorio un ampio camicione nero che ne copriva le forme del corpo e i colori dei vestiti, in una triste omogeneità conventuale, resa ancora più accentuata dalla rigida separazione tra maschi e femmine nelle sezioni più snob del liceo e nei corridoi e durante la ricreazione.
Erano i segni esteriori della rigidità e dell’ottusità di una organizzazione scolastica che proibiva confrontarsi con le possibili soluzioni ai mille dubbi e interrogativi che attraversavano i cervelli degli studenti di allora, sollecitati non certo da uno studio edulcorato e asettico, ma da scrittori, filosofi e intellettuali di fatto all’indice e letti e apprezzati solo fuori dalle aule.
Una scuola che non doveva fare politica e pertanto poverissima di insegnamenti e di nozioni, apparendo, quelle molte che transitavano, come rarefatte ed eteree, a svolazzare tra i banchi per poi depositarsi, del tutto inutilizzate, sul pavimento polveroso. Nessuna apertura a visioni diverse, nessun contraddittorio, impossibili i confronti, negate contestualizzazioni e parallelismi, proibite fuoriuscite da schemi e concettualizzazioni prefissate, interdetta ogni libertà di ricerca.
E’ cambiato qualcosa da allora? La scuola di oggi è altra cosa al punto che il principale dubbio sembra essere quello di cosa coprire e scoprire del volto e del corpo di una studentessa?
Non vorrei che si spendessero energie per una sorta di “baloccamento” su aspetti sicuramente importanti in quanto ad identità ed appartenenza, ma secondari rispetto al diritto di ognuno all’istruzione, intesa non solo come saper leggere, scrivere e far di conto, ma come appropriazione di tutti gli alfabeti esistenti, da quello della comunicazione di massa a quello della politica, da quello informatico a quello scientifico, in una socializzazione collettiva dei saperi realizzata all’interno di una istituzione aperta a tutti e gestita come una res publica.
Mi sembra che sia stato montato un grande diversivo, un trasferimento del conflitto sul terreno della purezza ideologica e della coerenza religiosa.
Sarebbe come porre lo stesso problema tra i raccoglitori di tabacco e di pomodoro reclutati da caporali privi di ogni scrupolo, tra le badanti clandestine sfruttate dalle mafie di mezzo mondo, tra le prostitute violentate e ricattate, tra i muratori a rischio in cantieri insicuri e malsani, tra i nuovi dannati della terra preda del lavoro forzato e dello schiavismo, come denuncia il Presidente della Repubblica.
Anziché parlare con loro di tempi e ritmi di lavoro, di salario, di protezione e sicurezza sul lavoro, di diritti al riposo e al tempo libero, alla salute, alla casa, all’assistenza sociale, potremmo discutere di comportamenti coerenti con credenze e con atti di fede, di rituali e pratiche religiose, di dogmi e di assunti metastorici, di previsioni e preveggenze su questo e sull’altro mondo.
Faremmo bene?
30 ottobre 2006
Pubblicato in: Umbria Contemporanea Rivista di studi storico – sociali, n.7, dicembre 2006
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