Israele e mondo arabo

Quando si parla del conflitto arabo-israeliano si misurano le parole.

Sostantivi e aggettivi, verbi e coniugazioni vengono pesati con il misurino del farmacista e ammessi dopo attenta ponderazione, con il rischio di essere brutalmente stigmatizzati o censurati.

Lo strumento principale dell’uomo civile (e della politica) è la parola, il linguaggio, l’ascolto e la comunicazione, ma in piena libertà d’espressione, dove tutte le parole sono ammesse, senza censure o autocensure, e dove sono utilizzate nella loro pluralità di rappresentazione e d’espressione.

Se deve esserci limitazione questo deve riguardare l’uso offensivo, violento del linguaggio, quando non si vuole né comunicare né convincere, ma solo vincere, prevaricare, sottomettere.

L’ultima, ennesima guerra arabo-israeliana non è così chiamata con il suo vero nome, ma derubricata ad atto di difesa, su cui si innescano aggettivi vari da legittimo a fuori misura, da giusto a esagerato.

Purtroppo le bombe su Beirut e i razzi su Haifa non rispondono alle leggi della sintassi e della grammatica, ma ciò nonostante hanno un loro linguaggio, crudo ed essenziale il cui codice è fatto di segni evidenti: i crateri delle bombe, le case distrutte, il fumo degli incendi, i morti avvolti nei sudari, le lacrime e la disperazione dei profughi.

Ma la politica si mantiene lontana da questa realtà, mantiene un suo linguaggio astratto, un suo codice astruso, ponderato, diplomatico, opportunistico. Non si vogliono toccare suscettibilità, mettere in discussioni alleanze e scelte di campo, criticare ideologismi, superare schematismi e semplificazioni.

La parola è quindi alle armi, ai cannoni, ai kamikaze, ai carri armati, ai razzi, alle rappresaglie, alle vendette, agli omicidi mirati, che nella loro concretezza ed essenzialità rappresentano meglio e più compiutamente una realtà dove l’odio sembra essere ormai l’unico sentimento possibile, l’ideologia religiosa l’unica fonte di ispirazione, il nazionalismo l’unica  dimensione di identità, il populismo l’unica forma di consenso.

E’ così in quella piccola parte del mondo, almeno dal 1948, con una accelerazione esponenziale negli ultimi anni, negli ultimi mesi, negli ultimi giorni.

E’ uno dei luoghi dove emerge clamorosamente l’impotenza della diplomazia, dove si afferma l’impossibilità di colloqui e il fallimento dei negoziati, dove mediazione, buon senso, raziocinio sembrano bestemmie o insulti.

Forse è il caso di riflettere sulla strategia che ha guidato la diplomazia internazionale e locale e sui si sono basati sinora colloqui e negoziati. Forse è sbagliata o meglio, non è realistica, a partire dalla parola d’ordine due popoli due stati.

La realtà sembra proporre un solo popolo e un solo stato.

Il popolo è quello palestinese, lo stato è quello israeliano.

L’aggressione dell’esercito israeliano ai territori autonomi palestinesi e al Libano distrugge vite umane, abitazioni, strade, servizi, coltivazioni, officine ma non è in grado, perché mai un’aggressione militare ne è stata in grado, di distruggere un popolo, perché la persecuzione esalta la sua identità  e rafforza i legami al suo interno, e, se accompagnata all’umiliazione, stringe nuove e più ampie solidarietà e contribuisce a selezionare tra di loro forme di lotta estreme e crudeli.

Non è lo stesso per il popolo israeliano, la cui identità si è costruita ed affermata a partire dall’olocausto del popolo ebreo per mano del nazifascismo e dall’antisemitismo diffuso in tutta Europa nel corso di molti secoli. La shoah lo ha rinsaldato come popolo, ha legittimato ulteriormente il suo diritto ad esistere, ha reso credibili lingua, simboli, costumi, ha (ri)fondato uno stato e le sue istituzioni. Non è dato ad un popolo siffatto trasformarsi da perseguitato a persecutore, se lo fa (e lo sta facendo) mette in discussione se stesso, distrugge la propria identità, si nega fino a scomparire come popolo e a trasformarsi in una comunità smarrita e angosciata.

Rimane invece lo stato israeliano, a questo punto però ridotto ad apparato formale e burocratico, controllato essenzialmente da militari, tutto finalizzato ad una fredda, cinica e spietata efficienza bellica, in cui la vita istituzionale, l’economia, la finanza, l’informazione sono di guerra e la dimensione sociale ne è largamente condizionata, in grado di produrre un consenso dettato solo dalla paura e dal desiderio di uscire quanto prima da un incubo.

Lo stato palestinese non è mai esistito perché non l’hanno mai veramente voluto né gli israeliani, né gli Stati Uniti, né l’Europa né tantomeno gli stati arabi. Esisteva fino a ieri in spazi ristretti e separati della Cisgiordania e della striscia di Gaza un embrione di stato, una prefigurazione di istituzioni, funzioni e servizi statuali, vivevano le prime forme di rappresentanza democratica e di rappresentazione sociale. Tutto è stato distrutto e oggi questa distruzione si estende alle strutture, infrastrutture e istituzioni libanesi.

In nessuno dei drammatici giorni della Guerra dei Sei Giorni e di quella del Kippur, lo stato israeliano aveva mai perso né un consenso vero e pieno del suo popolo né la sua credibilità e la sua legittimità morale, nonostante l’asprezza e le contraddizioni di quel conflitto.

La prima invasione del Libano, Sabra e Chatila, l’assassinio di Rabin hanno prima annichilito il popolo israeliano e invalidato il suo stato e oggi l’ennesima invasione dei territori autonomi palestinesi e i bombardamenti a tappeto del Libano hanno prodotto solo una ulteriore semplificazione di una logica che prevede un solo stato.

Infatti quando si parla di stato palestinese quali sono i suoi confini e da chi sono tutelati e garantiti? All’interno di tali confini è previsto un effettivo governo da parte di istituzioni ed organismi totalmente autonomi e democraticamente eletti ? In questo territorio possono vivere tutti coloro che sono e si sentono palestinesi, indipendentemente dai luoghi in cui attualmente sono costretti a risiedere? Sarà riconosciuto il diritto di muoversi e di risiedere liberamente all’interno di questo stato? Sarà possibile l’accesso alle stazioni di frontiera, ai porti e agli aeroporti dello stato palestinese di chiunque sia gradito alle autorità di quello stato? Sono pienamente utilizzabili le risorse del territorio dello stato palestinese a partire dall’acqua, dalle terre coltivabili, dalle fonti energetiche? E’ possibile lo sviluppo economico dello stato palestinese a partire dalla possibilità di realizzare strutture produttive autonome  che occupino la forza lavoro palestinese senza che questa sia costretta a vendere la propria forza lavoro nello stato d’Israele  con quotidiani ed umilianti pendolarismi? Sarà concesso allo stato palestinese di produrre ricchezza e di distribuirla ai suoi cittadini nelle forme e nei modi che i palestinesi riterranno più giusti ed opportuni?

Sono tutte domande retoriche. Ad ognuna è già stata data un risposta nella misura in cui un solo stato è accettato e legittimato a livello internazionale ed è lo stato d’Israele, che fa valere oggi l’ennesima vittoria militare sul campo e che ha già detto no allo stato palestinese, se non a uno o più “bandustan” o a più cantoni separati, completamente circondati e quindi controllati da Israele. Una sorta cioè di protettorato israeliano, che amministri, non certo da parte dell’OLP e dell’Autorità Nazionale Palestinese ma da una leadership palestinese locale collaborazionista, una percentuale molto ridotta della Palestina, privo di una effettiva autonomia, né politica né economica, fornitore ad Israele non solo di manodopera a basso costo quanto di una rete finanziaria accessibile e percorribile in modo spregiudicato dal mondo imprenditoriale e finanziario israeliano e mediorientale.

Ha senso allora continuare a parlare di due stati, quando la realtà impone soluzioni ben diverse?

Se lo si continua a fare per onestà intellettuale si abbia allora il dovere morale di lavorare concretamente per questa soluzione, definendo i connotati di queste due istituzioni, le carti costituenti, i profili giuridici, i confini geografici, gli spazi vitali, la natura economica e finanziaria di entrambi, le possibilità di scambio e di integrazione con la regione a cui entrambi appartengono.

E’ l’unica maniera, al di là delle retoriche e dei pregiudizi di ognuno, per ridare una speranza di patria alla diaspora palestinese e perché i quasi sei milioni di israeliani, di cui la maggioranza è nata in Israele, possano restare nella loro, perché per essi non esiste altra terra e altra possibilità di vita.

20 luglio 2006

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