12/05/2006 La loro storia

In un florilegio di felicitazioni, di complimenti, di compiaciute esternazioni l’elezione di Giorgio Napolitano alla carica di Presidente della Repubblica è per alcuni l’ennesima occasione per riscrivere la storia, secondo gli inossidabili criteri scolastici ginnasiali e liceali, fatti di semplificazioni, banalizzazioni, riduttivismi, omissioni. A dominare è ancora la messa in fila cronologica di battaglie (politiche), di congiure di palazzo (siluramenti nei Comitati Centrali), di matrimoni (sodalizi e correnti di partito), di strategie elaborate a tavolino (alleanze tra vertici di diversi partiti), di personalismi (stili di vita, portamenti, stature, progenie e discendenze), di congiunture (economiche), di casualità (malattie, morti, incidenti).

Veniamo a leggere quindi che se Napolitano fosse succeduto a Luigi Longo e non Berlinguer, illuso quest’ultimo di una supposta diversità politica e morale del PCI e ossessionato dalla ricerca di inesistenti terze vie e quindi responsabile di una deriva radicale e settaria del suo partito, sarebbe stata migliore la storia del nostro paese perché il centrosinistra (quello di oggi) sarebbe stato anticipato di decenni e la sinistra, finalmente socialista o socialdemocratica o riformista e non più comunista, si sarebbe potuta candidare a governare l’Italia.

Leggiamo ancora che l’antisocialismo, ripudiato fin dal 1964 da Napolitano e per questo parte minoritaria e mal tollerata nel PCI, è stato il terreno di cultura di tutte le sventure recenti, compreso il berlusconismo e comunque ci ha tenuto lontano dall’Occidente e dall’Europa, che, come si sa, era tutta impregnata di craxismo, dominata da una smania riformatrice e in pieno rinnovamento.

Pertanto la lungimiranza di Napolitano, di cui l’elezione a Presidente della Repubblica è un tardivo riconoscimento, dovrebbe non solo essere pienamente riconosciuta, come fa solennemente Piero Fassino, ma diventare oggi la pratica politica dell’Unione, a fronte del fatto, ormai acclarato, che la storia del riformismo italiano è diventata patrimonio di tutti e che era sacrosanta l’offensiva culturale socialista nei confronti dell’ ”italo comunismo”.

Ma la storia è invece molto più complessa ed è sicuramente più facile “piegarla” che “spiegarla”. La sua interpretazione è altrettanto complessa, scriverla è forse impossibile, anche se per gli editorialisti niente lo è. Sicuramente la storia non è quella che ci hanno inculcato al liceo e che ci viene riproposta pari pari.

Per una sola cosa: il conflitto sociale.

Napolitano non è stato segretario del PCI non solo in conseguenza di un atto del Comitato Centrale e della Segreteria di quel partito, ma di un clima sociale e di un protagonismo di massa che chiedeva altri protagonisti e altre culture politiche. Non si è minoritari a caso. Il livello di conflittualità sociale degli ultimi anni sessanta e dei primi anni settanta è stato elevatissimo ed ha attraversato tutti gli strati sociali, rivelando protagonismi fino ad allora inimmaginabili, come quello degli studenti, affermato anche a livello culturale con una fortissima rivendicazione di nuovi e vecchi diritti civili, con nuove pratiche sociali, con affermazione di altre e diverse cittadinanze. L’Europa era la Spagna di Franco ma anche dell’antifranchismo, il Portogallo di Salazar e dei Capitani, la Grecia dei Colonnelli e di Panagulis, la Francia di De Gaulle e del Maggio, l’Inghilterra dei Beatles e dell’IRA,  la Cecoslovacchia di Dubceck e dei tanks sovietici, la Jugoslavia di Tito e dei Non Allineati e poi al di fuori Cuba e il Vietnam e l’altra America, la Palestina con Arafat, il mondo arabo con Nasser, l’Iran dello Scià e il Cile di Allende.

Entrò in crisi un PCI nonostante un Berlinguer attento e appassionato, nonostante l’apertura dell’ eurocomunismo, la condanna dell’intervento sovietico a Praga, lo strappo da Mosca, lo salvò il suo radicamento, la sua storia, nonostante gli errori (Il Manifesto), il dare ascolto ad un popolo di sinistra (non la gente) che partecipava pienamente del travaglio e delle trasformazioni di quel periodo storico. Quella è stata la sponda che andava cercata (e che il PCI non cercò fino in fondo) non il PSI di Craxi, lanciato in una avventura di governo fatta di dissipazioni di denaro pubblico, di arrembaggio di ogni potere, di clientele incredibili, di corruzione diffusa e legittimata. Craxi non è morto in esilio come Garibaldi, sdegnato da un esito della politica da lui non voluto e contrastato, ma condannato in tutti gli ordini di grado della giustizia penale, inseguito da mandati di cattura, perseguitato perché latitante. Nelle sue grazie si è arricchito Berlusconi, diventando un potente e assumendo a modello l’arroganza, la tracotanza, l’anticomunismo.

Che avrebbe fatto il comunista socialdemocratico, l’europeista (di quale Europa?), il migliorista Napolitano? Non lo sapremo mai, per fortuna. Per fortuna lui è oggi Presidente della Repubblica, molto meglio di Letta, molto, ma molto di più di Berlusconi (e anche di D’Alema). Festeggiamo un ottimo risultato della tattica dell’Unione, apprezziamo le sue doti indubitabili di “uomo delle istituzioni”, compiaciamoci della sua riservatezza e signorilità, ma non scomodiamo la storia. Limitiamoci alla cronaca.

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