06/06/2006 Democrazia incompiuta o crisi della democrazia?

La democrazia moderna è nata per garantire l’espressione e la rappresentanza politica a classi e ceti sociali, fondamentalmente borghesi, storicamente esclusi nella ripartizione ufficiale dei poteri, nonostante fossero produttori di ricchezza e di cultura, proprietari di beni, detentori di risorse finanziarie, protagonisti dei mercati.

Per affermarsi si è fatta ugualitaria e universale, garante dei diritti e dei doveri, solidaristica e fraterna e si è data quale elemento fondante l’equilibrio dialettico tra i poteri, legittimamente riconosciuti, accettati nella loro pluralità, separati e autonomi ma nessuno prevalente, ognuno possibile portatore di conflitti ma comunque sempre costretto alla mediazione.

La questione vera della democrazia è pertanto quella dei poteri: quali, quanti, come e dove.

La negazione dell’assolutismo, l’accettazione della pluralità delle persone e della loro soggettività, ma anche delle classi sociali e del loro protagonismo, porta di conseguenza all’estensione delle interlocuzioni e dei rapporti sociali, alla legittimazione di interessi sempre più molteplici, ad una ampia formulazione di domande e alla complessa maturazione di aspettative, sia individuali che sociali.

Ogni organismo della società, istituto o istituzione, assemblea di eletti o consiglio di rappresentanti,  società o lobby, associazione o sindacato, deve pertanto prevedere al suo interno pluralità ed equilibrio di poteri, pena il riproporre monocrazie, privilegi, disuguaglianze e con essi la negazione della democrazia.

I poteri sono senza la maiuscola, perché vari e molteplici, a differenza del Potere, che è sempre uno e assoluto, e non sono predicabili, in quanto legittimi ed evidenti e quindi non possono essere “forti” o “occulti”.

Ciò nonostante le vicende storiche passate e la cronaca attuale ci ripropongono non solo il conflitto tra i poteri, ma la prevaricazione di uno sull’altro, la sudditanza di alcuni, la presenza solo nominale di altri.

Non mi riferisco solo ai poteri “costituzionali” (legislativo, esecutivo, giudiziario) o al “quarto potere” nato con la comunicazione di massa e con la società dell’informazione, ma all’articolazione di altri poteri largamente presenti nelle istituzioni pubbliche, non direttamente riconducibili ai primi: il potere politico, il potere tecnico e il potere gestionale.

Non vengono individuati come tali, pur riconoscendo che i vari organi e apparati, esplicitando funzioni grazie a specifiche competenze, determinano in maniera significativa gli orientamenti, le scelte, i risultati dell’ente o dell’istituzione di appartenenza.

Nella Pubblica Amministrazione sono conosciute le cariche e gli incarichi individuali: assessori, consiglieri, dirigenti, direttori generali, direttori amministrativi, segretari generali, presidenti, amministratori, direttori sanitari, revisori etc., ma non sono altrettanto definiti gli ambiti e con essi i confini del loro operare.

Molto spesso è quindi il politico che definisce modalità e tecniche applicative ed operative, così a volte è il tecnico che individua quali provvedimenti siano prioritari e urgenti o è il manager ad applicare passivamente input e sollecitazioni, indipendentemente dalle risorse esistenti. Tutti prescindendo dai loro ruoli, esercitando un potere, per forza propria o per debolezza altrui, che è di fatto uno strapotere, anche se non illegittimo, ma sicuramente elemento di squilibrio, di precarietà, di inefficienza.

La partecipazione, la collegialità, la condivisione sono elementi di democrazia, ma riguardano non solo l’aspetto formale ma anche quello sostanziale, perché incidono sulla efficacia dell’azione amministrativa della cosa pubblica, la “res publica”.

Per questo è importante attribuire consapevolmente compiti e funzioni e i poteri che ne conseguono, cioè la possibilità di effettuare scelte in piena autonomia e in totale responsabilità, nel rispetto dei poteri altrui, che sono sempre vicini e compresenti, espressione di diverse funzioni e vincolati a specifici ambiti.

Per questo è necessario che al potere politico, rappresentato dagli eletti nelle varie assemblee o negli organi esecutivi, competa pienamente la dimensione della Opportunità, cioè la proposizione di progetti considerati necessari ed indispensabili per soddisfare gli interessi legittimi di quella società di cui si è rappresentanti e ai cui bisogni si vuol dare rappresentazione.

Così è necessario che spetti al potere tecnico, esercitato da chi è in possesso di requisiti, capacità e competenze professionali, valutare la Fattibilità delle volontà politiche, definendo i programmi operativi, operando le scelte tecniche, adottando la strumentazione disponibile, verificando le procedure.

Ed è altrettanto necessario che competa al potere gestionale, rappresentato da manager, da esperti della organizzazione e della conduzione, l’ambito della Pianificazione, cioè stabilire gli obiettivi, definire le attività, attribuire le risorse, controllare i processi, verificare i risultati.

Non necessariamente e non sempre questi poteri sono allineati, concordi e in concerto tra loro, possono (e debbono) essere in conflitto, inteso come espressione di bisogni o interpretazione di domande che vanno difese, ma tra pari rapporti di forza, pari legittimità, pari riconoscibilità. Non in uno stato di guerra (permanente), come tra chi vuole la propria vittoria e la sconfitta altrui, l’affermazione delle proprie ragioni e la sopraffazione di quelle degli altri, ma in una ricerca di mediazione, che tra pari diventa obbligatoria.

I cittadini devono essere chiamati a essere i garanti, non solo con il voto, ma con i comitati consultivi, con la partecipazione diretta, con la loro chiamata in causa come utenti, come associati e come sindacalizzati.

E allora che c’entra tutto questo con le monocrazie della aziende sanitarie locali e ospedaliere?

Che c’entra con il “sindaco-podestà”  o con i “governatori” regionali?

Che c’entra con il rafforzamento degli esecutivi a scapito della assemblee elettive a partire da quelle comunali per arrivare al Parlamento?

Che c’entra con il rafforzamento dei poteri del premier dell’esecutivo e con la diminuzione di quelli del Presidente della Repubblica?

Che c’entra con lo strapotere della politica, che pretende il controllo non solo di  apparati, di organismi e organigrammi, di procedure e procedimenti che le competono ma anche del sistema giudiziario, di quello economico-finanziario e di quello dell’informazione e della formazione?

Il 25 giugno 2006 votiamo al referendum anche queste questioni e poniamo le premesse per sciogliere o stringere questi interrogativi. Anche se non lo sappiamo.

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