Note redazionali
Per alcuni anni il SEDES, agenzia regionale per la promozione e l’educazione alla salute, l’informazione e la promozione culturale in ambito socio-sanitario, di cui sono stato direttore, ha curato il Notes, notiziario di educazione alla salute, sia in versione cartacea che on-line.
Sulle sue pagine ho scritto spesso degli editoriali, di cui propongo una selezione.
1 ° febbraio 2001 Notizie pazze
La vicenda “mucca pazza” appare a tutt’oggi non solo un grave problema di salute pubblica, ma sta assumendo rapidissimamente tutti i connotati di un grave problema sociale. Non è infatti solo minacciata la salute di animali e esseri umani, ma è in discussione una intera e articolata filiera produttiva, con ricadute notevoli sul piano produttivo e occupazionale e con grandi interrogativi aperti sul futuro di allevamenti animali, sulla natura di cibi e di alimenti di origine animale, sulla capacità effettiva di controllo e vigilanza da parte del Servizio Sanitario Nazionale e sulle stesse modalità di distribuzione e di commercializzazione di questi cibi.
All’interno di questa questione, o meglio, a monte di questa questione, appare come un dato assoluto la improvvisa e rapidissima modifica di comportamenti sul campo alimentare da parte non di individui o di singoli gruppi, ma a livello di massa, senza apparente distinzione tra classi e ceti sociali. Tutto questo non sulla base di informazioni certe e credibili, acquisite all’interno di un percorso anche educativo, in grado di motivare scelte e orientamenti consapevoli e ragionati, ma fondamentalmente sulla base di suggestioni profonde, di allarmismi diffusi, di sensazionalismi clamorosi, veicolati prevalentemente dagli strumenti della comunicazione di massa, essenzialmente televisivi.
La vicenda “mucca pazza” ripropone quindi un interrogativo che riguarda direttamente tutti coloro che sono attivi nel campo della educazione e promozione della salute e che chiama direttamente in campo metodi e modalità di intervento, strumenti e strategie e, in particolare, il ruolo che occupa l’informazione in tema di salute e gli strumenti, anche modernissimi, di cui dispone. Se questo nodo non viene affrontato con decisione, si rischia di vanificare interventi e di pregiudicare iniziative, con spreco di risorse e di energie, perché in balia di una comunicazione di massa su cui non c’è effettivo controllo pubblico, non sul terreno della censura ovviamente, ma della congruità, della comprensibilità e della completezza dell’informazione. Dall’altra parte il Servizio Sanitario Nazionale, nel suo complesso e nelle sue articolazioni regionali e territoriali, stenta a dotarsi di una propria strategia comunicativa a livello di massa, con propri e opportuni strumenti. Quando lo fa, anche in numerose sedi, spesso è il frutto di scelte che appaiono transitorie e contraddittorie, comunque non sempre con le necessarie garanzie di efficacia comunicativa. Su entrambi i terreni va recuperata una capacità di iniziativa e di proposta, da parte soprattutto delle autorità sanitarie, sapendo che non si tratta di attivare una operazione di cosmesi o di abbellimento dell’immagine delle aziende o servizi sanitari, ma di elaborare modalità di rapporto e di comunicazione con i cittadini in maniera stabile ed efficace. Altrimenti lo faranno altri soggetti e, spesso, anche male.
1° marzo 2001 Otto domande sulla pazzia
Il termine “sofferenza merntale” non appartiene ufficialmente al linguaggio psichiatrico. Molti gli preferiscono il termine di sofferenza sociale, volendo così rimandare alla dimensione in cui poter individuare cause o concause, fattori determinanti o predisponenti di processi patologici che è comunque difficile contenere nei termini ufficiali quali, ad esempio, schizofrenia, depressione o sindrome ossessiva. Questo termine appartiene pienamente al linguaggio comune e, anche se è generico e forse ambiguo, coglie una dimensione diffusa e denota un vissuto di molti, se non moltissimi.
Questo malessere, per la sua dimensione di massa, pone numerosi interrogativi e non solo agli psichiatri.
A un qualche ruolo, in tutto questo, la perdita di certezze in merito ai modelli cognitivi, al sistema dei valori, al complesso degli atteggiamenti e dei comportamenti individuali e collettivi?
Si può restare indenni di fronte a cambiamenti profondi che ormai interessano ogni aspetto della vita, sconvolgendo modelli e stili, avvallati da tempo e avvalorati da codici e rituali?
Non è emblematico il manifestarsi sempre più frequente di vissuti d’ansia, denotati da reazioni emotive incontrollate, eccessive e anomale, perché non più riferite a reali situazioni di rischio, fonte di legittima paura, cioè di allertamento e predisposizione di difese, ma ad una generica e generale percezione di pericolo, a minacce provenienti da un mondo largamente incomprensibile e quindi ostile, a numerose dimensioni altre da sé e conseguentemente nemiche?
Può crollare, in tempi rapidissimi, la certezza del cibo, della sua salubrità, innocuità, genuinità, integrità e purezza, senza produrre squilibri psicologici e mentali?
Si può impazzire quando a farlo sono, non tanto le mucche, quanto i sistermi di controllo di interi paesi, le autorità sanitarie e politiche di un continente e, cosa non trascurabile, la comunicazione di massa, ormai globale?
E’ legittimo che il ceto politico richiami con perentorietà il mondo scientifico a fornire chiarimenti e soluzioni, quando nell’agenda politica la ricerca scientifica occupa gli ultimi posti e ad essa non vengono destinate le risorse necessarie a sostenerla?
E’ giusto chiedere alla scienza false rassicurazioni e impossibili soluzioni anziché pretendere la socializzazione delle conoscenze disponibili, che sono e devono essere sottoposte a continue revisioni, perché sono sempre e comunque imperfette?
E’ opportuno affidare solo alle chiacchiere e alle urla mediatiche viziate da sensazionalismo e spettacolarità, l’informazione del cittadino?
1° aprile 2001 Dieci per cento di egoismo
Nella documentazione che l’organizzazione Medici Senza Frontiere produce per sostenere e legittimare la “Campagna per l’accesso ai farmaci essenziali”, un dato merita di essere sottolineato ed enfatizzato: il 90% degli investimenti per la ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci è destinato a problemi sanitari che riguardano il 10% della popolazione mondiale.
E’ quel dieci per cento che mi intriga.
Non sono uno statistico e gestisco con difficoltà indici e tabelle, ma sono convinto che quel 10 per cento ha anche una grande disponibilità di acqua potabile (per lavare anche l’automobile), un’ampia offerta di cibi e alimenti (al limite della bulimia e a pieno rischio di ipercolesterolemia), notevoli accessibilità a fonti energetiche (anche per surriscaldare le case e il pianeta), una diffusa rete di servizi sociali e sanitari (anche non essenziali ed alcuni inefficaci), una speranza di vita che oltrepassa gli ottanta anni (offuscata da Alzheimer e solitudine).
Sono per di più convinto che quel dieci per cento vive prevalentemente in una sola parte del pianeta, in cui confini sono ben netti e impenetrabili, oltrepassati solo da una infima minoranza di quel novanta per cento residuo che riesce, legittimamente o illegittimamente, ad attraversarli, per usufruire, pagando con il proprio lavoro, di una minima parte dei beni e delle risorse che vi sono concentrate.
Sono infine convinto che vi siano contraddizioni anche all’interno di quel dieci per cento, i cui diritti di cittadinanza, di uguaglianza, di tutela sociale sono in discussione, soprattutto sul terreno della universalità e della piena godibilità.
L’accessibilità ai presidi sanitari, la fruizione ampia dei farmaci e delle terapie, l’equità dei trattamenti stanno diventando, in questo quadro, una possibilità concreta solo di una infima minoranza dell’umanità. Tutto ciò prevede la negazione della salute come diritto fondamentale di tutti e la sua (ri)conferma come merce, su cui ogni profitto è possibile e legittimo. Vi è la negazione di forme essenziali di solidarietà, la riconferma di egoismi e particolarismi biechi e ottusi, la perdita di prospettiva di vita e di sviluppo di interi continenti.
Possiamo permetterci e possiamo sostenere, al di là degli aspetti morali, tali squilibri sociali, simili azzeramenti culturali e civili, una regressione economica di tale portata e su scala globale?
Io credo di no ed è anche per questo che sosteniamo con le nostre poche pagine la “Campagna per l’accesso ai farmaci essenziali” di Medici Senza Frontiere.
E’ cosa giusta, opportuna e doverosa.
1 maggio 2001 Rischiano, rischiano grosso e non lo sanno
“Rischiano, rischiano grosso e non lo sanno”.
E’ l’attacco di un articolo di un quotidiano, scritto a proposito di un convegno dell’Associazione Medici Cardiologici Ospedalieri. Sovrappeso e obesità, sedentarietà, abitudine fumatoria, ipercolesterolemia sono chiamati in causa quali fattori di rischio per il cuore, con una riquadratura a parte per la infedeltà in amore. Rimedi: una rete di ambulatori cardiologici e la prevenzione nelle scuole a cura di una associazione no-profit dal nome esotico.
Va tutto bene. E’ importante che segnali di allarme vadano lanciati, che il singolo cittadino (né addetto ai lavori, né malato) venga messo di fronte a fattori di rischio sottovalutati o sconosciuti, che si individuino strade credibili e praticabili per la prevenzione. Ma ad una condizione: che non si torni indietro e (soprattutto) non si inventi l’ombrello.
Provo a declinare altri rimedi: Servizio Sanitario Nazionale, Educazione alla salute, Progetto Città Sane.
Nei confronti della prevenzione delle malattie cardiovascolari vanno messe in campo le grandi risorse e le notevoli competenze presenti nei servizi della sanità pubblica, sia ospedalieri che territoriali, comprendenti a pieno titolo i medici di base e i presidi sanitari rappresentati dalla farmacie, pubbliche e private.
Va espressa a tutto campo una potenzialità enorme e che può manifestarsi sul terreno della informazione dei cittadini, della prevenzione, della promozione della salute, della diagnosi precoce, della terapia.
La scuola pubblica, parallelamente, possiede una analoga e incredibile potenzialità di intervento sul terreno dell’ analisi critica delle informazioni e delle conoscenze, sulla modifica e/o sulla conferma di atteggiamenti favorevoli alla salute (anche del cuore), sulla individuazione di comportamenti coerenti con stili di vita salubri. Non c’è bisogno di delegare ad altri questo compito, che può essere assolto in prima persona dai docenti debitamente formati e responsabilizzati, gli unici in grado di (ri)portare l’educazione alla salute nella ordinarietà e sistematicità dei curricula didattici.
E’ ormai opportuno che la salute (anche del cuore) diventi a pieno titolo uno degli obiettivi di governo delle città e che sindaci, assessori, consiglieri comunali siano consapevoli che le scelte sul piano urbanistico o su quello della viabilità, della qualità della vita urbana, o, ad esempio, le iniziative contro l’inquinamento acustico o la creazione di servizi per l’attività fisica (non necessariamente per lo sport) sono determinanti anche ai fini di una efficace prevenzione della malattie cardiovascolari. Scopriremmo allora che rischiamo, rischiamo grosso.
1 giugno 2001 AIDS e Coca Cola
Sembra essere arrivata la svolta della lotta contro l’AIDS in Africa (dove è concentrato il 70% dei 34 milioni di malati): lattine di Coca Cola insieme a preservativi e depliants. Non un dollaro dei circa dieci miliardi che Kofi Annan ha chiesto di raccogliere per un fondo speciale contro l’AIDS, ma una iniziativa di propaganda che, sfruttando la struttura distributiva della multinazionale, ha come obiettivo principale la tutela dell’immagine (e delle vendite) della casa di Atlanta. Tutto questo mentre la comunità scientifica ha difficoltà a trovare un percorso comune e ad attivare sinergie non solo per individuare un vaccino efficace, ma anche per definire con certezza l’origine e la natura della malattia e non per acquisire titoli accademici, ma per capire il ruolo e il concorso che molteplici fattori hanno nella depressione del sistema naturale di difesa, tutti legati ad un vero e certo fattore depressivo generale: la miseria.
Non è un caso che il presidente del Sud Africa manifesti perplessità riguardo all’azione solo farmacologica e immunologica contro l’AIDS e indichi invece come prioritaria la via della lotta alla fame. Il vizio a cui si associa l’AIDS non è la rilassatezza dei costumi sessuali, ma la grande disuguaglianza sociale tra nord e sud del mondo, la povertà di mezzi e strumenti di intervento, la mancanza e l’inefficienza di servizi sanitari pubblici, tutti terreni di incubazione di ogni genere di malattia infettiva.
Questo non significa abbandonare il terreno della terapia e della profilassi. Le “terapie di combinazione” hanno infatti cambiato completamente il volto dell’infezione da HIV, ma stanno anche dimostrando l’impossibilità attuale di eradicare il virus dall’organismo e stanno orientando la ricerca verso strategie terapeutiche in grado di cronicizzare la malattia e di rendere possibile e credibile una convivenza con la stessa.
A questo punto la condizione è la più ampia disponibilità di farmaci tollerabili, facili da assumere e fortemente efficaci, ma che siano soprattutto attivi i sistemi di difesa della società., per impedire squilibri e depressione sul piano sociale, economico e culturale. Quindi anche l’accettabilità sociale della malattia, la massima tolleranza e la più ampia solidarietà e strutture aperte e flessibili, non necessariamente solo sanitarie, luoghi soprattutto del counseling e del rapporto sociale. Tutto questo per il nord del mondo. Per il sud i cartelloni nelle sterminate bidonville e depliants per chi non sa leggere, anche se targati Coca Cola e distribuiti nella sua enorme rete commerciale, appaiono per lo meno inutili, se non offensivi.
1 luglio 2001 Sic et simpliciter
Chi scrive ha interrotto il trattamento del farmaco “stativa”, a cui faceva ricorso da circa due anni, non per disturbi collaterali né tantomeno su indicazione del suo medico curante o della farmacia di cui riforniva, ma perché casualmente ha letto su un quotidiano del ritiro dal commercio del farmaco suddetto. Sic et simpliciter.
Nessuna autorità sanitaria, nell’articolazione complessa del Servizio Sanitario Nazionale, ha svolto, prima, durante e dopo il fatto in questione, un significativo ruolo di informazione, se non su sollecitazione, come sempre occasionale e sensazionalistica, dei mass media, fattisi espressione degli allarmi e delle preoccupazioni dei cittadini. Il tutto come se la vicenda non fosse un fatto di tutela della salute, ma una vicenda legata solo e unicamente al mercato, cioè alla sola dinamica della domanda e dell’offerta e alle regole che la governano, senza nessun ruolo né della scienza né della politica. In questa situazione il farmaco appare pertanto sempre più una merce, non un presidio sanitario, di cui allargare o restringere la produzione e il consumo solo e unicamente sulla base di convenienze economiche e la cui efficacia terapeutica è avvallata e legittimata solo grazie alla forza e ai primati finanziari e commerciali della aziende produttrici.
E’ preoccupante il silenzio, la reticenza, l’imbarazzo di chi, a vario livello e a vario titolo, deve governare la promozione e la tutela della salute dei cittadini, perché alimenta da una parte “una grande abbuffata” mediatica e dall’altra un protagonismo a senso unico dell’industria farmaceutica. Perché non si informa con maggiore puntualità sulle attuali procedure e sugli odierni criteri di valutazione, denunciando i punti critici e individuando le soluzioni, anche legislative, per fare della farmacovigilanza uno strumento di governo, non subalterno alle pressioni di commercializzazione, alle logiche di mercato, ai ritorni economici? A meno che questo silenzio significhi una piena complicità con una logica di mercato, che, nel caso in questione, comporterà nell’immediato e sic et simpliciter, un significativo risparmio per il drastico ridimensionamento di una voce di spesa.
Con buona pace degli ipercolesterolemici.
1 settembre 2001 Una cosa né buona né giusta
Non molto tempo fa un dirigente di un SERT mi diceva che il suo impegno principale, a cui dedicava le (poche) risorse a disposizione, era quello di impedire la morte dei tossicodipendenti con cui il servizio veniva in contatto. E il contatto con i tossicodipendenti era immediatamente dopo il secondo obiettivo. Riassumendomi in questi due elementi essenziali la missione del servizio, mi trasmetteva la dimensione non solo organizzativa e operativa della rete dei SERT, ma anche quella morale e culturale. Farsi carico della vita dei propri assistiti, a fronte di un drammatico incremento della possibilità di morte tra i tossicodipendenti, attraverso una strategia che punti alla interpretazione dei loro atteggiamenti, che aumenti la loro consapevolezza del rischio e che modifichi i loro comportamenti più strettamente connessi alla perdita della vita, continua a sembrarmi infatti non solo l’applicazione operativa della prevenzione, da tanti sbandierata, ma anche il mettere in atto un impegno morale. I limiti e le contraddizioni di questa strategia, che va articolata in un’azione più generale, addirittura planetaria (repressiva, preventiva e riabilitativa) erano e sono da sempre dichiarate ed esplicitate, in prima persona, dagli operatori del SERT.
Perché allora l’accanimento di oggi contro questi servizi, la banalizzazione del loro operato, la minimalizzazione del loro contributo, la criminalizzazione di un aspetto non certo esaustivo della loro pratica (la somministrazione di metadone)?
Non sarebbe più opportuna una valutazione obiettiva, non ideologica, di questo pezzo dello stato sociale, considerando anche le risorse messe a disposizione dei SERT, la loro integrazione con tutti gli servizi delle ASL, nonché con altri servizi territoriali, il consenso effettivo che hanno riscosso presso i tossicodipendenti e le loro famiglie? A meno che l’obiettivo non sia quello di smantellare lo stato sociale, ridimensionare l’intervento pubblico, fare di un problema di sanità pubblica un problema solo di ordine pubblico, con il logico corollario di repressione e proibizione.
E allo sarebbe una cosa né buona né giusta.
10 settembre 2004 Incidenti stradali: non solo patente a punti
C’è un legittimo allarme, sollevato anche dai media, intorno al problema degli incidenti stradali in Italia, alla luce anche dei recenti dati rilevati nello scorso mese di agosto da parte di Polizia Stradale e Carabinieri. Ben venga l’allarme, a condizione che esso lasci subito spazio ad analisi puntuali e valutazioni attente, perché il tributo che si paga sulle strade in termini di vita e di salute è altissimo, ma non da ora.
C’è però una cosa che non mi convince: incentrare la riflessione sull’efficacia della patente a punti. Non si può pretendere che un problema complesso come quello degli incidenti trovi soluzione con un solo e limitato provvedimento, per quanto giusto ed opportuno esso possa essere (e la patente a punti lo è).
Il cosiddetto ridimensionamento degli effetti di questo provvedimento in termini di incidenti e mortalità stradale non può essere l’unica preoccupazione, anche perché deve essere valutata nel tempo e soprattutto deve essere enfatizzato (e valutato) anche su altri terreni, quale ad esempio quello della cultura della legalità. Altre dovrebbero essere le preoccupazioni. Esiste un piano concreto e fattibile di ammodernamento e relativa messa in sicurezza della rete viaria nazionale, autostradale e non? Si sta lavorando per dirottare su “ferro” e su “acqua” quote significative del trasporto merci, per separare il più possibile il traffico veicolare leggero da quello pesante? Quali sono le iniziative (efficaci) per innalzare il livello della cultura della legalità da una parte e della cultura della sicurezza dall’altra, a fronte di una situazione in cui pesano anche i comportamenti individuali?
Dico questo non per polemizzare (anche se non sono assolutamente d’accordo con chi sottovaluta la eccessiva velocità in auto) ma per aprire anche una riflessione al nostro interno, perché gli incidenti stradali non sono solo un problema di sicurezza, ma riguardano nello specifico il capitolo delle morti evitabili e delle disabilità evitabili, una delle sfide del nuovo millennio per la sanità pubblica.
22 ottobre 2004 Sfere d’influenza
I pessimisti, le cassandre, i menagrami, i profeti in nero sul futuro ormai compromesso della sanità pubblica stanno drammaticamente avendo ragione, ottenendo (numerose) prove di evidenza.
Sette ore di coda in ospedale a New York per il vaccino contro l’influenza.
Questo provvedimento, considerato ormai acquisito nella pratica medica, da tempo validato sul piano scientifico, entrato stabilmente nei comportamenti di milioni di persone, è diventato negli USA un bene di lusso, reperibile sul mercato nero, elargito a chi viene definito a rischio (i cui connotati rimangono ancora indefiniti e generici), con il vero rischio, in alcuni Stati americani, della multa o della galera per medici e infermieri troppo generosi.
In Italia, a fronte di un prevedibile ricorso di massa alla vaccinazione antinfluenzale, le case farmaceutiche hanno innescato una scandalosa corsa al rialzo dei prezzi, nonostante la incredibile disparità di costi con il resto d’Europa, con la quale sembra che l’Italia condivida di fatto solo il campionato europeo di calcio. Ma il vero dramma è l’impotenza, dichiarata e pubblicamente ostentata, del Ministro della Salute, che ha strappato solo e unicamente un “gentlemen’s agreement” con le case farmaceutiche, non volendo o non potendo esercitare nessun potere di controllo, quasi che il farmaco, o meglio la politica del farmaco, compresa la sua accessibilità, non sia un problema di salute (pubblica). Sembrano le facce della stessa medaglia: da una parte la non disponibilità, a livello di massa, di un vaccino; dall’altra la sua accessibilità solo a costi troppo alti o comunque più alti. Il fatto vero è che si è di fronte alla messa in discussione di un provvedimento di sanità pubblica che riguarda un numero enorme di persone, e non sulla base della sua appropriatezza o di una procedura di Health Impact Assessment (valutazione delle ripercussioni sulla salute) ma su valutazioni di convenienza economica e di garantismo giudiziario, riferite ad un livello di interesse esclusivamente privato.
Quando verranno messi in discussione altri presidi di sanità pubblica, nel territorio e negli ospedali, ci si rifarà ancora all’aggiotaggio delle scorte e ad altri gentlmen’s agreement subalterni all’interesse privato o si eserciterà la legittima e indispensabile azione di governo nell’ambito di un sistema di diritti e di garanzie quale è un Servizio Sanitario Nazionale? Si legge che a Budapest i 14 ministri europei dell’Ambiente e della Salute, partecipanti a giugno ad un importante vertice, si sono sottoposti ad appositi prelievi che hanno rivelato la presenza nel loro sangue di tracce di 55 sostanze indesiderate: dai pesticidi ai ritardanti di fiamma, dagli ftalati agli antisettici. Il test è stato poco sensibile. Avrebbe dovuto essere più approfondito e mirato per trovare tracce anche di sensibilità sociale, attenzione tecnica e competenza politica.
29 0ttobre 2004 La pillola dell’oblio
Possiamo stare tranquilli! Qualcuno ci sta promettendo un futuro ripulito da facce, odori, modi, eventi e situazioni crudelmente inopportune. Non sono alchimisti, chiaroveggenti, maghi, né tantomeno politici “unti dal Signore”, ma un team di scienziati di Francia, Canada e Stati Uniti, che lavorano ad un farmaco in grado di cancellare dalla memoria le esperienze di sofferenza acuta. L’elemento di partenza sembra essere stato la necessità di affrontare con efficacia la sindrome da stress post traumatico, prodotta, ad esempio, da un terribile incidente, da un attentato terroristico, da uno stupro, dagli orrori di una guerra. Dobbiamo comunque aspettare il prossimo convegno della Società di Neuroscienze a San Diego, California, per conoscere i primi risultati di questi studi e capire le caratteristiche, le modalità d’azione, le indicazioni terapeutiche di quella che già viene chiamata “la pillola dell’oblio”.
Alcune considerazioni generali sono però d’obbligo. Senza mettere in discussione la necessità, in casi del tutto particolari ed eccezionali, dell’“oblio tereapeutico”, per alleviare una sofferenza e per facilitare le opportune modalità d’approccio e di cura, mi chiedo quanto in questo momento sia opportuno parlare di oblio, di cancellazione di ricordi, di rimozione (farmacologica), di perdita della memoria. Anche a fronte di una minaccia concreta, che fa della perdita di memoria un suo elemento caratterizzante, quale la malattia di Alzheimer. Possiamo veramente permetterci di dimenticare quello che ci fa soffrire, che è tale perché rappresenta un elemento inaccettabile, indicibile, incomprensibile, irragionevole? Oppure, senza derive masochiste e compiacimenti esistenzialisti, si deve farne una ragione, deve essere reso comprensibile, va detto e reso accettabile? La vita dell’uomo è veramente un processo lineare, dove le contraddizioni sono sempre da rimuovere, per recuperare una presunta coerenza a stili e modelli di vita, che sono comunque mutevoli e contraddittori e a un sistema di valori che è altrettanto condizionato dal tempo e dalla storia ? Possono l’organizzazione sociale, i sistemi politici, gli assetti istituzionali rinunciare al conflitto, cioè la manifestazione di una sofferenza sociale, politica e istituzionale, quale elemento di crescita, perché costringe alla comprensione, al confronto, alla difesa e giustificazione dei propri bisogni e domande, alla mediazione, ad un momento di sintesi superiore?
Io non vorrei che dietro la domanda della “pillola dell’oblio” ci sia una concezione della vita e del mondo troppo semplice, se non addirittura semplicistica, che nega la natura complessa e contraddittoria dell’esistere e che pretende di rimuove i problemi negandoli, rimuovendoli o, in questo caso, cancellandoli farmacologicamente. Ci sia soprattutto la paura, sempre più diffusa, di confrontarsi, di mettersi in gioco e quindi di scegliere, con il rischio, ineliminabile, di sbagliare e da ciò la richiesta di avere uno strumento per rimediare agli sbagli senza alcun disagio e sofferenza e con esso tacitare la paura. Quando invece è la memoria, al contrario, l’unica vera risorsa contro la paura, anche se essa è contraddittoria, perché a volte (se non spesso) è fallace, può essere a sua volta consolatoria e ingannevole, ma è nostra, ci appartiene, è una parte importante di noi ed è il mattone per costruire e ricostruire. Perché privarcene? Qualcuno poi rivendica la possibilità di dimenticare amori infelici e fallimenti sentimentali. Ma per questo, scusate il mio semplicismo, non c’è il famoso detto “chiodo scaccia chiodo”?
12 novembre 2004 I maestri del sospetto
Un ex ministro della Sanità sostiene che la polenta, fatta con mais non transgenico, potrebbe essere cancerogena. Un professore di Botanica Generale e Biotecnologia delle Piante presso l’Università di Milano afferma che “il pesto prodotto con foglie di basilico prelevate da piantine alte meno di 10 centimetri può contenere una sostanza cancerogena”.
Sembra un terremoto, un cataclisma che mette in discussione consumi e stili di vita, tradizioni alimentari e filiere produttive, opinioni consolidate e certezze scientificamente validate.
Scattano allarmismi e polemiche, si sparano a raffiche dichiarazioni, si esternano critiche, si moltiplicano le prese di posizione.
Eppure era già successo che filosofie e ideologie sostenitrici del macchinismo, dello scientismo, del progresso ancorato ai fatti e alla logica pretendessero l’egemonia culturale, si facessero carico del destino dell’umanità, si proponessero di risolvere problemi di portata planetaria. Ma era anche successo che altre filosofie e altre ideologie mettessero in evidenza le distorsioni di tale processo, introducendo nuove categorie di pensiero ed altri linguaggi. E’ il caso di pensatori e scienziati, oggi bistrattati se non rimossi, che hanno introdotto, ad esempio, i concetti di sfruttamento, di alienazione, di falsa coscienza (Karl Marx) o di rimozione, di inconscio, di lapsus (Sigmund Freud), negando una presunta linearità, una supposta chiarezza, introducendo elementi di critica, di dubbio, divenendo, come qualcuno li definì, “maestri del sospetto”.
Gli OGM, perché di questo si tratta, sono definiti dall’ex-ministro il “futuro dell’umanità” e per questo “mezzo mondo ha deciso intelligentemente di affidarsi agli organismi geneticamente modificati”. Chi si pone criticamente nei confronti delle tecniche transgeniche, sempre secondo l’ex-ministro, ha un “atteggiamento quasi terroristico, irrazionale, che rischia di farci tornare al periodo dell’oscurantismo, con tesi assolutamente antistoriche”.
E’ il tono messianico, da crociata, che non convince, non tanto le opinioni, ma un linguaggio che non vuole comunicare o convincere ma attaccare e criminalizzare le opinioni contrarie o dubbiose, fino a parlare di “ un movimento antiscientifico serpeggiante”.
E invece dobbiamo comunicare e convincere, a fronte di una ridondanza delle informazioni veicolata dall’esplodere della comunicazione di massa, di una grande asimmetria informativa tra il consumatore e il paziente da una parte e i produttori di merci e servizi dall’altra, di una comunicazione pubblica che diventa tout-court comunicazione pubblicitaria. A fronte di uno stordimento dell’opinione pubblica, che fatica a seguire le indicazioni, i proclami, gli annunci, gli anatemi, e che, in tema strettamente alimentare, si perde in una miriade di ricette presentate in una miriade di trasmissioni televisive, dove cibi, alimenti, condimenti, pani e companatici, vengono cotti, bolliti, fritti, rifritti, caldellati, odorati, assaporati, gustati senza alcun minimo riferimento alla salute.
Siamo ormai alla grande bouffe, all’indigestione, al pieno assoluto, non possiamo fare altro, finita l’indigestione e posto un freno all’ingestione, che selezionare, discriminare, scegliere, ma non solo i cibi e gli alimenti, ma anche gli esperti, i taumaturghi, i soloni, con la sola unica arma disponibile: il sospetto nei confronti dell’arroganza e della sicumera.
[Ho preso lo spunto per le mie considerazioni, ma anche concetti, considerazioni e parole, da un articolo di Paolo Vineis, pubblicato nella rivista Janus della primavera 2004. Confido nella sua benevolenza.]
28 gennaio 2005 Tante chiacchiere in fumo
In un recente articolo pubblicato su Repubblica Michele Serra nel definire “sommamente antipatica” la legge sul divieto di fumare nei locali pubblici, anche se “necessaria e inevitabile”, parla di eccessi di zelo di uno Stato ficcanaso, salutista e infermiere. Mi chiedo se è sempre stato eccesso di zelo di uno Stato “salutista” l’aver reso obbligatoria la vaccinazione contro la poliomelite o di uno stato “ficcanaso” l’aver posto limiti alla velocità automobilistica sulle strade o, ancora, di uno stato “infermiere” l’aver reso obbligatorio l’uso del casco in moto e la cintura in auto. Perché il vero problema, a mio parere, di cui si sta tanto discutendo in questi giorni, partendo dalla legge cosiddetta “antifumo”, che antifumo poi non è, è quello dello Stato e del suo ruolo per l’affermazione e la difesa di doveri e diritti universali.
A forza di sentir parlare di “meno Stato”, di “privato è bello”, di sussidiarietà verticale e orizzontale, di ridimensionamento del pubblico, di negazione dello “statalismo”, di Roma (capitale dello Stato) ladrona, tutto quello che, in nome della evidenza (e nel caso del fumo evidenza scientifica), cioè della dimostrazione dell’efficacia di un provvedimento nei confronti di un fattore di rischio o di un determinante della salute, viene fatto applicare per tutelare il bene collettivo, viene visto con fastidio, solleva infinite perplessità, suscita dubbi e criticità, fa invocare libertà e autodeterminazione individuale. A conferma che la cultura di riferimento è quella dei diritti ma in chiave tutta e solo individualistica, rivendicati da individui che si pongono isolatamente nei confronti dello Stato, negandosi le possibilità e le opportunità offerte da una concreta e ben identificabile comunità organizzata, basata su un insieme di valori e con un suo sistema di garanzie.
Eppure la grandi battaglie contro numerose malattie sono state vinte grazie allo Stato, perché è lo Stato che, tra l’altro, ha costruito fognature e acquedotti, che ha risanato ambienti e territori, ha scolarizzato intere popolazioni, ha realizzato presidi sanitari, ha imposto vaccinazioni a tutti e dappertutto. Se lo stesso fastidio, le stesse perplessità, gli stessi dubbi e la stessa invocazione di libertà fosse rivolta con la stessa determinazione nei confronti dello Stato assenteista, inefficiente, menefreghista, compiacente, (perché lo Stato è anche questo) allora ne guadagnerebbe non lo Stato ma i cittadini e alcuni dibattiti verrebbero riportati alla vera dimensione a cui appartengono: quella del condominio.
8 luglio 2005 L’acqua del sindaco
Fonti autorevoli consigliano di bere quotidianamente almeno due litri di acqua, in occasione delle ondate di calore estivo, per salvaguardare la salute e la vita soprattutto di persone “fragili” per l’età, stati di malattia, particolari condizioni fisiologiche.
Va tutto bene, ma quale acqua devono bere? Se fa fede la situazione dell’informazione, dei consumi, della normativa e del sistema di captazione e distribuzione delle acque pubbliche in Italia, i due litri non potranno non essere che di acqua minerale, o meglio di acqua imbottigliata, sigillata e commercializzata da gruppi industriali privati.
Allora non va bene. Perché, pur di fronte ad una disponibilità di acqua potabile del demanio pubblico più che sufficiente per i fabbisogni individuali e collettivi, gli italiani sono al primo posto in Europa per il consumo di acqua minerale (170 litri pro capite l’anno contro gli 85 litri della media europea) e giustificano tale scelta per ragioni di sicurezza e di qualità, a fronte di indagini che giudicano l’acqua del rubinetto non da meno della minerale su questo terreno. Sono infatti molto più restrittive per le acque pubbliche le norme riguardanti le concentrazioni di sostanze tossiche ammesse e notevolmente più frequenti e precisi i controlli.
Ma non va bene sul piano dei costi: un litro di acqua minerale oscilla tra i 20 e i 50 centesimi a fronte di un euro per mille litri di acqua di rubinetto. Non va bene inoltre sul piano dell’inquinamento ambientale: i contenitori di plastica coprono il 95 per cento dell’imbottigliamento di acque minerali e questo si traduce in Italia in un cumulo di 100.000 tonnellate di rifiuti.
Tutto questo pertanto non va bene soprattutto sul piano della salute dei cittadini. L’acqua è un elemento fondamentale per la vita, ma se non si afferma la direttiva europea numero 60 del 2000 che sancisce che “L’acqua non è un prodotto commerciale, bensì un patrimonio che va protetto” continuerà a prevalere un uso sbagliato e distorto di un bene “salutare”. Sono ormai irrimandabili iniziative educative mirate a sollecitare modelli di consumo più razionali e più ecologicamente compatibili, basati su informazioni certe e credibili e non su pregiudizi o seduzioni irrazionali. Così come non è accettabile che ancora molti italiani non godano di un accesso regolare all’acqua potabile ed è altrettanto inaccettabile che quote significative di acqua vengano perse per l’inadeguatezza di molte reti di distribuzione. Ma soprattutto non è possibile che non venga difesa nelle forme e nei luoghi deputati l’acqua pubblica, non ne venga sostenuto il consumo dopo l’enorme sforzo pubblico per garantire captazione, distribuzione e potabilizzazione, non si controbatta all’incredibile battage pubblicitario che invade le case degli italiani a favore delle acque imbottigliate.
Dalle mie parti l’acqua del rubinetto si chiama anche “acqua del sindaco”. È un modo per esaltarne le qualità, ma anche per richiamare l’autorità municipale al proprio specifico ruolo di garante di un bene che non solo è pubblico ma è anche un diritto.
Chiediamo e beviamo dunque l’acqua del sindaco!
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