Voglio iniziare con la parola nostalgia.
Non voglio qui mettere in discussione un sentimento nobilissimo e legittimo, su cui si sono costruite anche significative operazioni letterarie, voglio invece entrare in polemica con un atteggiamento diffuso, espresso spesso in iniziative pubbliche e riportato sulla stampa, riferito alla città di oggi con lo sguardo sempre riferito alla città di ieri, non per una critica allo stato di cose presenti, ma come difficoltà o non volontà a capire i grandi cambiamenti sociali e culturali che sono in atto e come rifiuto a governare questi processi.
Questi cambiamenti sono presenti anche a Perugia e riguardano le funzioni, gli assetti sociali, la tipologia architettonica e urbanistica, il sistema dei valori e le gerarchie sociali, nessuna esclusa. Non c’è in questo momento istituzione pubblica o privata, gruppo o classe sociale, ceto politico o economico, che non sia obbligato a rivedere la propria collocazione nell’assetto urbano e sociale della città. Dall’Università al Comune, dal Tribunale al’Ospedale, dal Carcere alla Provincia, dagli esercizi commerciali a quelli artigianiali, dagli studi professionali alle sale cinematografiche, per fare solo alcuni esempi, tutti sono impegnati a ridisegnare la propria presenza a Perugia, per cogliere al meglio le opportunità e superare i vincoli che propone una massa critica di oltre 150.000 abitanti, con in più circa 20.000 studenti residenti e altrettanti fruitori quotidiani di una città capoluogo di regione.
Di fronte a questo cambiamento è comprensibile il disagio di molti, il loro smarrimento, la difficoltà a coglierne pienamente la complessità e a individuare soluzioni, l’emergere dell’ansia spacciata per un bisogno di sicurezza che poi invece è di certezza e quindi non solo sul terreno del diritto o della salvaguardia personale.
Questi sentimenti sono anche nostri ma di questi non vogliamo essere nè prigionieri né vittime.
Anche perché la vittima più clamorosa, anche se non l’unica, di questo cambiamento è il cosiddetto Centro Storico. Un termine recente che tende a rappresentare una realtà anch’essa recente. Fino a ieri, cioè fino a non moltissimi anni fa, non esisteva il Centro Storico, ma esisteva il Centro. Perugia aveva una organizzazione urbanistica e sociale centripeta, dove il Centro, racchiuso nell’acropoli antica, rappresentava il luogo unico ed esclusivo dell’offerta dei beni e dei servizi, della rappresentanza politica e istituzionale, delle dinamiche e degli scambi sociali significativi, della rappresentazione dei poteri e del conflitto sociale. Aveva cioè un centro e attorno, in subalternità o in antagonismo, borghi, quartieri, periferia, centri minori, contado. Oggi il Centro è diventato Centro Storico, a rappresentare non più l’elemento di riferimento funzionale alla vita di tutta la città, ma solo il luogo simbolico per la storia, la cultura, la bellezza e la nobiltà architettonica, un luogo non più antropologicamente significativo, uno spazio dove è più evidente che altrove la “desertificazione sociale”, non solo per la perdita di abitanti, di funzioni, di offerta commerciale e artigiana, ma per la scomparsa di possibilità ampie e diffuse di scambio sociale. Accanto al centro divenuto storico si sono ormai da tempo strutturate altre realtà urbane, alternative se non antagoniste, sicuramente autonome.
E’ un’altra Perugia San Sisto, che poi è anche Sant’Andrea delle Fratte, Santa Sabina e Lacugnano, una città nata intorno alla più grande e significativa concentrazione industriale e produttiva del perugino, oggi non più solo quartiere operaio, ma realtà postfordista, variegata e giustificata anche da una grande distribuzione commerciale, ricca di numerosi punti di eccellenza unici in tutto il territorio comunale, da una grande rete di servizi, da quelli distributivi a quelli ricreativi, da quelli di supporto informatico alle redazioni di giornali, fino a quelli sanitari, rappresentati dall’Ospedale Silvestrini, futuro Polo Unico Regionale.
E’ ancora un’altra Perugia quella sviluppatasi lungo il Tevere, da Ponte San Giovanni a Ponte Valleceppi, da Ponte Felcino a Ponte Pattoli, che non trova più nel fiume la sua identità e cerca, ancora vanamente, nuovi riferimenti all’interno della grande espansione urbana residenziale e nelle vaste zone industriali, nuove e moderne “terre di nessuno” dove la scarsa dignità degli insediamenti non permette di identificare le possibili nuove libertà e i relativi diritti di cittadinanza. Non a caso in questa Perugia, cresciuta stretta e storta tra il fiume, la FCU e la superstrada E45, spicca, quale vera e propria nuova emergenza non solo commerciale, il grande Ipermercato di Collestrada.
In questa ridefinizione di Perugia antiche realtà urbane, quali i borghi medievali e i quartieri del dopoguerra, rimangono schiacciate tra l’ancora alto valore simbolico del Centro Storico, richiamo se non altro per giovani e turisti e per manifestazioni ed eventi di massa e il dinamismo delle nuove perugie, con le quali non riescono a competere non solo sul terreno economico ma soprattutto su quello sociale.
Di fronte a questo processo di trasformazione, sommariamente descritto, nulla può la nostalgia, anche se condita di passionalità. Nulla possono le rievocazioni false e retoriche di Centri Storici quali salotti buoni, su borghi vivaci e pittoreschi, su realtà alacri e operose per la capacità di buoni amministratori e la lungimiranza di antichi padroni. Ma se nulla può il rimpianto molto forse può la volontà politica e la determinazione amministrativa non tanto a un controllo dirigistico dei processi ma almeno a marcarli con un segno proprio, identificabile e condivisibile.
Tutto questo non appartiene all’ordinario, che è quello che deve essere fatto quotidianamente e che è dovere di ogni amministrazione e su cui c’è sempre molto da fare. Tutto questo appartiene alla progettualità, allo sforzo straordinario di prescindere dal quotidiano, di individuare precocemente soluzioni che prefigurino obiettivi coerenti con i cambiamenti che sono in atto. Il problema pertanto non è tanto definire la fattibilità dei progetti quanto valutare la loro opportunità, e questo è il compito primario della Giunta, perché lo studio e la valutazione di fattibilità deve essere affidato alla struttura tecnico-amministrativa del Comune, a partire dal Direttore Generale fino ai responsabili di Settore e ai dirigenti di Unità Operative.
Allora, per tornare al Centro Storico, va perseguito con forza l’obiettivo della riconversione sociale e della riabilitazione aggregativa di spazi, molti pubblici, logorati da un uso ormai antistorico o diseconomico e per questo ormai abbandonati o in via di abbandono, per riproporli anche come elementi fondativi e per questo con l’accortezza di metterli in relazione tra loro.
Realizziamo allora un nuovo Teatro, che sia un centro multimediale di servizi, di consumo e produzione culturale, uno spazio “aperto” non solo perché ambito di rappresentazioni, di incontri, di esposizioni ma anche perché in grado di offrire servizi non solo ai soggetti e alle agenzie culturali ma anche ai cittadini in quanto tali.
Realizziamo un nuovo Ospedale, cioè il luogo dell’ospitalità, altra cosa rispetto alle cliniche e ai policlinici, cioè i luoghi delle malattie. Il luogo dell’accoglienza che dia gambe alla politica dell’accoglienza, ormai obbligatoria a fronte di una società in cui l’immigrazione rappresenta un elemento strutturale, e gli immigrati si pongono come una vera risorsa e non solo economica, ma a cui vanno dati necessariamente le opportunità di alfabetizzazione, di formazione professionale, di integrazione (non di assimilizzazione) culturale. Un Ospedale che abbia una doppia utenza: da una parte immigrati in gruppi non necessariamente omogenei per nazioni di provenienza, a rotazione secondo cicli formativi definiti e a termine; dall’altra cittadini italiani per fruire di spazi sociali, culturali e ricreativi comuni.
Realizziamo allora un Mercato, recuperando il nostro Mercato Coperto, accettando la sua diversità architettonica, enfatizzando la sua proiezione esterna rispetto al tessuto urbano antico, utilizzando la sua complessità fatta di terrazze, di cortili, di padiglioni, arricchendola di un sistema di percorsi a più livelli, che permette, per la sua natura di spazio coperto, di essere fruibile per tutto l’anno e di ospitare, oltre lo scambio e la vendita di merci (all’ingrosso, in forma specializzata, al minuto) anche attività ricreative, culturali e sociali.
Diamo un segnale di controtendenza, su cui innestare altri processi, quali il riinsediamento abitativo, il recupero architettonico, la qualificazione dell’arredo urbano, sapendo però che la partita si gioca in questo caso sul piano, difficilissimo, del recupero dell’identità, della relazione, dello scambio sociale.
Ma i segnali vanno dati anche nelle altre perugie.
A S.Sisto nuovi volani economici e sociali si aggiungono a quelli storicamente già presenti, confermando grandi numeri e grandi quantità ma soprattutto bisogni e aspettative anch’esse grandi e anch’esse nuove.
E’ qui che serve un progetto sopra e oltre i dati di realtà, spesso concepiti come elementi inamovibili e intangibili, alibi a pigrizie intellettuali e a interessi di parte, una pretesa di senso in un concentrato urbano che di fatto non lo possiede, per dare a questa Perugia immagini in cui potersi riconoscere e idee in cui poter credere.
L’occasione è offerta dalla demolizione del vecchio CVA, reso inagibile dal terremoto del 1997, che ha reso evidente quale incredibile spazio è disponibile al centro di San Sisto e quanto banalmente era stato fin qui utilizzato, ad eccezione del “nuovo” edificio delle torri gemelle, originali anche se insufficienti. Incredibile non solo per la dimensione quantitativa, ma anche per la tipologia del terreno, collocato su più livelli, in parte alberati, disponibili a molteplici utilizzi e con intorno le principali funzioni sociali, rappresentate dalla Circoscrizione, dalla Scuola, dalla Chiesa parrocchiale, in grado già da ora di caratterizzare l’area quale nuovo centro civico e con la potenzialità di ulteriormente qualificarsi in tal senso. Un’area che può essere resa totalmente fruibile grazie ad una mobilità sostenibile, in seguito alla pedonalizzazione di alcune vie che rappresentano oggi una barriera e un elemento di vera divisione.
Il progetto della futura biblioteca non può essere quindi che il primo passo per ripensare completamente questo spazio, considerandolo come l’occasione per dotare questa Perugia di edifici e di spazi significativi a partire dalla vita sociale e dai simboli che essa pretende. Non luoghi del solo consumo né dell’ostentazione sociale ma della libera e spontanea frequentazione, favorita dal richiamo di indispensabili e necessarie funzioni civiche, dalla gradevolezza e dall’accessibilità dei siti, dalla valenza simbolica delle architetture e degli arredi urbani, dalla ricchezza sociale delle presenze singole o di gruppo o di genere o di etnia.
Un altro volano, complementare agli altri, ma anche con un valore in più, rappresentato dalla sua “inutilità” consumistica, dalla “gratuità” commerciale, dalla sua irriducibilità a non essere merce, con il solo valore d’uso, sociale e culturale.
Ponte San Govanni, Ponte Pattoli, Ponte Felcino, Ponte Valleceppi sono tutti posti alla base di una linea di colline, di cui la FCU lambisce il fianco e che hanno guidato lo sviluppo sul piano alluvionale del Tevere che oggi è irto di case e palazzi, e relative urbanizzazioni, stretto da un altro confine, il terrapieno della superstrada, dove convergono, in entrata e uscita, con quotidiana insistenza, colonne di veicoli.
La Perugia sul fiume è cresciuta tra questi suoi confini, che di fatto sono ancora a fatica valicabili, e che stringono antichi insediamenti e zone residenziali, centri commerciali e zone industriali, urbanizzazioni recenti e ville signorili e, con esse, circa 40.000 abitanti.
Questa città deve eliminare e allargare i confini, ricucire le sue parti, creare nuovi baricentri.
Un confine può e deve essere eliminato. La superstrada deve essere allontanata dall’abitato, soprattutto da quello di Ponte San Giovanni, con una variante all’attuale tracciato che diventa asse viario interno, trasferendo altrove imponenti flussi di traffico diretti al raccordo Perugia-Bettolle.
Ma anche la ferrovia può diventare tramite e collegamento, nella sua veste di possibile metropolitana di superficie, asse di collegamento rapido, alternativo ed ecologico con la Perugia dell’acropoli, in alto e con la Perugia di S.Sisto oltre Fontivegge. E le stazioni, completamente rivisitate, ricollocate a traverso della strada ferrata, possono assolvere il doppio compito di snodo ferroviario, ma anche di parcheggio di scambio di veicoli privati e di bus pubblici, nonché di asse di ricucitura urbana tra l’espansione di case sulla collina e la città sul piano, perché concepite e attrezzate come ponti per l’attraversamento pedonale e ciclabile.
Il fiume, valorizzato come ambito naturale pienamente fruibile ed accessibile, può tornare ad essere il luogo della socialità, soprattutto se reso ancora più permeabile con sistemi su scala ridotta rispetto al modello del nuovo-vecchio ponte di legno.
Allentati i confini rimane il problema di dare a questa Perugia dei baricentro, luoghi anche simbolici per l’irraggiamento non tanto e solo urbanistico quanto sociale. I servizi comunali decentrati, i luoghi della tutela della persona e della salute, la vigilanza urbana, gli spazi dell’aggregazione giovanile e della solidarietà con i più deboli, i mercati e le fiere, le rappresentazioni di strada e le performances artistiche, la libera frequentazione di individui e di gruppi in un ambiente ricco anche di naturalità, tutto questo può essere ospitato in questi spazi.
I ponti sul Tevere sono ancora l’elemento simbolico e materiale dell’originario aggregato urbano, per i quali il fiume non è mai stato un confine ma il tramite con i territori circostanti. Alcuni sono ponti maestosi ed eleganti, come a Ponte Felcino, con le vecchie case quasi abbarbicate ad esso ma non all’acqua, al punto di legittimare la necessità e la possibilità di un lungofiume, un itinerario alberato al di là delle case, una pedonalità parallela alla statale, dal ponte al Lanificio, come un nuovo manufatto che volutamente ed esplicitamente si aggiunga, con una sua architettura e una sua tipologia, alla realtà urbana esistente, per riproporla come centrale, negli scambi e nella frequentazione sociale.
Altrimenti il baricentro si continua a spostare oltre il fiume, inseguendo passivamente il nuovo edificato, fino alla superstrada, perdendo però i contatti con il Tevere e con esso, l’unica, possibile, identità. Non è un caso che al centro della nuova urbanizzazione di Ponte Felcino ci sia un grande campo incolto, né alberato né seminato, e in esso, unico luogo di attrazione e frequentazione, un supermercato. E che al centro di Ponte San Giovanni ci sia ancora un centro commerciale ed un grande, anonimo parcheggio. E’ difficile, se non impossibile, a questo punto impedire il nesso tra socialità e consumismo, tra senso di sé e possibilità all’acquisto di merci, tra autonomia e pensiero unico.
Intorno ai ponti invece sono ancora possibili altri nessi, per altre identità, grazie ad ex manufatti industriali, alle chiese parrocchiali, agli uffici pubblici, ad aree verdi di grande qualità e pregio ambientale, a emergenze artistiche, alle strutture scolastiche.
Ma anche perché solo lì è possibile una ricucitura urbanistica con l’incredibile altro aggregato urbano sviluppatosi sui bordi ripidi delle colline, sopra la ferrovia, con una tipologia edilizia intensa ed aggressiva, che risale in alto compatta. Luoghi con una vocazione agricola se non silvo-pastorale, per i boschi e la macchia che c’è comunque e ancora. Al limite poteva essere zona residenziale con forti limiti qualitativi e quantitativi, anziché palazzi uno sull’altro, che oggi ricevono e rilasciano centinaia di perugini con relative auto, che trovano oggi nella ferrovia solo un ostacolo, costringendoli ad attraversamenti complessi e problematici, per raggiungere i luoghi del lavoro, della scuola, della socialità extrafamiliare.
Ma questi sono solo esempi, perché molteplici sono ancora i luoghi e le aree dove investire in progettualità e, ribadisco, non in ordinaria amministrazione: l’attuale Policlinico, il Parco di Santa Margherita, la città universitaria della Conca, l’ex Conservatorio Musicale, il Distretto Militare, il Carcere di Piazza Partigiani, il convento di Santa Maria Nova, la Manifattura Tabacchi, l’area di Campagnano, l’ex tabacchificio a Ponte Valleceppi e questi esempi possono essere decuplicati a fronte del patrimonio presente nelle decine e decine di centri minori presenti nel territorio comunale.
Ma non voglio fare l’elenco della spesa con i relativi conti; voglio solo porre un problema tutto politico che è quello di quale progettualità può e deve essere protagonista la Giunta che governa Perugia o se invece deve aspettare e rispettare la progettualità di altri e per altri interessi diversi e non necessariamente coerenti con quelli pubblici.
Se deve intercettare il legittimo protagonismo di altri soggetti con un proprio protagonismo, di cui comunque vanno colti i limiti e definite le possibilità.
A disposizione c’è l’organizzazione comunale, sempre impropriamente chiamata macchina, come fosse un motore inerte solo da calibrare e regimare, e non l’insieme vasto e complesso di cervelli e competenze, di cui va verificata fino in fondo efficienza ed efficacia, anche su terreni diversi dalla quotidianeità.
Ancora a disposizione c’è il patrimonio rappresentato dall’imprenditoria pubblica comunale, ricco di risorse umane e materiali, impegnato in settori strategici quali la mobilità, i trasporti, i parcheggi, la raccolta e la valorizzazione dei rifiuti, il ciclo delle acque, la tutela della salute.
E poi c’è la cittadinanza, a cui va chiesto di confrontarsi e decidere sui grandi temi della città, sulle grandi scelte e sulle opzioni di fondo, per non banalizzare, in discussioni particolaristiche, la partecipazione e il protagonismo sociale a una semplice questione di condominio.
Non la gente, non la genericità degli abitanti o dei consumatori, o peggio ancora dei clienti, portatori inevitabili dell’egoismo sociale, di bisogni contingenti, di aspettative non sempre rapportabili alle risorse e alle disponibilità esistenti, ma i cittadini, gli appartenenti di una comunità, per i quali sono parole significative la solidarietà, l’apertura, la tolleranza, l’integrazione e che chiedono, legittimamente, che siano anche parole di governo.
Perché Perugia sia la veramente la Città di Tutti e nel senso vero e profondo di Aldo Capitini.
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