Provenza e Catalogna agosto 1998

17 agosto

Perugia-Carpentras 837 chilometri; sei ore per la frontiera, otto per Aix-en – Provence e ancora un’ora per Carpentras, in tempo per permettere al padrone dell’Hotel Safari (trovato grazie ad alcuni magrhebini del posto, di cui uno in motorino) di rispondere alla domanda “a che ora si mangia?”, “maintenant!”.

Cena alla francese, raffinata nel porre e nel confezionare. Non c’è la scandalosa usanza italiana dell’acqua minerale, l’acqua è in caraffa ed anche ghiacciata. C’è il vino invece, molto caro, anche se in demi bouteille.

Carprentras di notte è spettrale per la forte illuminazione e la totale assenza di passanti, se non una minima concentrazione sociale in alcuni caffè. La stanchezza e una certa inquietudine ci consigliano un rapido rientro in albergo.

18 agosto

Prima è il Rodano, lento e maestoso e poi l’emergenza del Palais des Papes, ma non una cuspide, un campanile o una torre a svettare, a segnalarne da lontano l’esistenza, ma il complesso del monumento, l’insieme di tutti suoi volumi e dei contrafforti e delle volte. Un massiccio di pietra chiara, compatto e maestoso, a sovrastare tutto, il fiume, i grandi viali, l’insieme delle case. Non come a Urbino, dove sono le forme gentili del Palazzo Ducale a imporsi dappertutto, perché questa è una gigantesca fortezza che sembra imprigionare, mentre sembra proteggere, racchiudendo un potere più che ostentarlo e quando questo avviene, come nella Place du Palais, appare incombente ma lontano, inaccessibile. Le stanze interne, gigantesche e ormai disadorne, appaiono più luoghi di congiura e d’intrigo che d’elaborazione di un progetto, la difesa di un privilegio anziché la proposta di una nuova egemonia. Quando questo avverrà, ma sarà ancora tra molto, sarà di nuovo a Roma.

I Papi celebrano tutti i loro fasti all’interno ed il popolo a volte ne è ammesso, ma solo nel Cour d’Honneur, intimorito e condizionato dalle alte mura e dalle torri di guardia. Anche l’ingresso della Grande Chapelle, pur nella sua eleganza, è un fatto decorativo interno e riservato, perché, di fatto, è la Cappella del Palazzo, per i Papi, la Curia, la corte, non certo per il popolo. Siamo in ogni modo nel Medio Evo, lontano ancora dal Rinascimento e il chiostro interno, austero e tetro, lo ricorda.

Il “ponte rotto” sul Rodano, le Ponte St-Bénézet, dove “y danse tous en ronde”, conferma l’isolamento dell’Avignone dei Papi ed emblematizza la sua separatezza dal Regno di Francia e dall’intera Europa. Anche perché di là dal fiume c’è un’altra piccola Avignone, Villenueve lès Avignon, che non capisco se ne sia un completamento o un’alternativa, con la sua Certosa e un possente castello. Dalla sua collina la vista è ampia sulla valle verdissima del Rodano ed Avignone con il suo Palais ne è completamente sommersa.

La salita (in auto) al Monte Ventoux è occasione per Anna Maria di rimembranze petrarchesche, mentre per me è essenzialmente Tour de France. Solo la cima, nuda e bianca nella roccia, rispetto ai versanti verdi di foresta, conferma tutte le nostre suggestioni, anche se violata da enormi ripetitori ed osservatori astronomici ed il piccolo monumento al ciclista Simpson, decorato di camere d’aria, di borracce e di cappellini, si confonde con le rocce abbaglianti. I versanti alberati si aprono solo di fronte alle scrimature dei campi di lavanda, spazi regolari e simmetrici in un panorama che ormai è di nuovo arrotondato, apparentemente dolce, ma solo per poco perché si rompe e si fa asprissimo all’altezza delle Gorges de la Nesque, caňon profondissimo e inaspettato, vista la portata minima del suo fiume.

Di nuovo a contraddirsi, il paesaggio ridiventa contadino, a vitigni bassi, con alte barriere antivento di lecci, il vino reclamizzato da cartelli d’origine e da segnali delle cantine d’appartenenza. Lo rigustiamo a cena, accompagnando questa volta gazpacho alle cozze, insalata di fichi, ornionata alla provenzale. E’ un bell’insieme, come i panorami della giornata.

19 agosto

Tante volte sorgenti e corsi d’acqua avevano evocato il celebre verso “chiare fresche dolci acque”, ma solo a Vauclause assume una vera credibilità, perché lì è stato effettivamente ispirato e perché le acque sono incredibilmente abbondanti e luminosissime. Siamo alle pendici di una barriera di roccia che chiudono la valle e nascondono la più grande (sembra) risorgenza del mondo. Ci si arriva in mezzo ad una calca incredibile di turisti, dopo un percorso di bancarelle e ristoranti, ma la vista è desolante, perché l’immensa sorgente è quasi a secco per la siccità estiva. L’ira d’Anna Maria è irrefrenabile, io mi consolo guardando in alto, sopra la cornice di roccia, un cielo azzurrissimo.

Riattraversiamo la grande piana del delta del Rodano, provincia francese tutta a campi e giardini, fino a Tarascon, per mangiare baguette e tartare nei giardini di Tartarino, un’occhiata al grande castello e poi la vista e lo stupore del Pont du Gard. La sua sopravvivenza mi sembra miracolosa, come altrettanto miracolosa la sua costruzione, o meglio temeraria, ardita, sfacciata. Chissà quanti schiavi sono morti per questa sfida agli equilibri statici e formali! Centinaia di persone ci fanno compagnia sul ponte romano, altrettante si abbronzano sulle rive sassose e sugli scogli o si bagnano nelle acque del fiume sottostante. Ci allontaniamo sotto un sole cocente, nella consapevolezza di essere tra i due milioni di persone che annualmente visitano il ponte.

A Nîmes, le chiare e fresche acque di Vauclause e quelle meno chiare del Gardon sono lontane ma non il sole cocente, che nel pomeriggio picchia così forte da farci rischiare il collasso.

Ogni velleità di visita o di ripartenza è stroncata sul nascere dall’assoluta impellenza di un albergo con l’aria condizionata. Troviamo, in un Hotel Clarine, la nostra finora più piccola stanza d’albergo, ma fresca e pulita.

Solo un lungo relax, con relativa doccia, ci permette di uscire nella città e visitare le grandi vestigia romane, anche perché le vie sono ormai tutte in ombra e i caffè offrono tavolini e bevande fresche. All’ora di cena il caldo è ancora pesante, anche nel cortile ombroso del ristorante Paradis du Convent, il che non c’impedisce di gustare una zuppa marinara, gamberoni alla niçoise e merluzzo arrosto. Flan per finire.

20 agosto

Nîmes è molto bella per i resti romani e per il pittoresco reticolo urbano intorno alla cattedrale, circondato da boulevard, ma sono comunque i suoi molti negozi che la rendono elegante e piacevole. E’ segno di ricchezza, ostentata e diffusa ed il complesso delle halles, in pieno centro, che accomuna il vecchio mercato con nuovissimi spazi commerciali, riconferma grandi disponibilità economiche ed una grande offerta di beni, ma anche una moderna concezione dell’offerta e, forse, una buona amministrazione. Sono comunque per noi tutte illazioni che facciamo durante la colazione, ma entrambi pensiamo alle tristi e penose condizioni del Mercato Coperto di Perugia, città con lo stesso numero d’abitanti di Nîmes.

Carcassonne sembra essere il più grande falso storico di Francia, prodotto mentre noi eravamo impelagati nell’unità d’Italia, ma è una tappa d’obbligo perché la vista delle sue mura e delle torri c’era sembrata alcuni anni fa incredibilmente suggestiva e per Anna Maria la mancata visita di allora era stata occasione di perenne rimprovero.

Ma in Carcassonne si consuma una dei grandi rituali del turismo di massa francese ed europeo, dove un numero incredibile di persone affolla le strette vie e le piazzette di questa cittadina murata, con pochissimi residenti, ma con un’incredibile offerta d’alberghi, ristoranti, caffè, bistrot, artisanarie e spacci di souvenir. I bambini sono quasi tutti armati di spadoni di plastica (prezzo: 100 franchi) se non di ridicoli elmi e pettorali, sempre di plastica, mentre gli adulti ostentano ogni foggia possibile d’indumento turistico, essenziale, colorato, sgargiante, griffato, etichettato.

La quasi totalità è alle prese con gelati, bibite, acque minerali, a sollievo di un caldo che continua implacabile.

Abbandoniamo quasi immediatamente il nostro enorme gruppo di visita del Château Comtal, rinunciando alla visita e ci facciamo guidare dalle suggestioni meno affollate ma dopo un piccolo tour siamo di nuovo in albergo, a meditare sulla cena, che appare a questo punto l’unico obiettivo credibile. Una folle speranza ci fa ritenere vuoto e finalmente praticabile il castello, ma è solo alleggerito il traffico viario, essendo la maggioranza ormai immobilizzato in tutti i locali dove si servono cibarie e bevande. Nel ristorante che scegliamo troviamo silenzio e compostezza, ma soprattutto piatti locali, elaborati in modo non banale. Ci riappacifichiamo un po’ con Carcassonne ma la decisione di fuggire rimane ben ferma.

21 agosto

Toulouse è un altro mondo, non più mediterraneo. Sarà perché la città è quasi tutta costruita di mattoncini rossi, che non rimandano la luce del sole, che è anche velato da un cielo cupo che rende meditabondi. Fanno però la città accogliente, calda, senza l’esuberanza della pietra o la sfacciataggine dell’intonaco e su queste cortine rossiccie si aprono vetrine eleganti senza essere eccessive, librerie (molte), brasserie e tanti portoncini colorati.

La cattedrale è la prima emergenza che incontriamo, quasi per sbaglio, perché siamo alla ricerca d’altre chiese e l’interno ci colpisce per l’eccentricità della navata con il coro, che poi corrisponde alla facciata, costruito in modo quasi autonomo se non con dispetto. Questa eccezionalità è recuperata nella città, nel suo ordine urbanistico, nella linearità delle vie che ci portano facilmente e rapidamente alla Garonna. E’ il secondo fiume francese che vediamo ed anche questo, come nessuno dei nostri, è solenne e maestoso. Les Jacobins non sembra una chiesa ma all’esterno una fortezza e all’interno una moschea, perché non ha affreschi né quadri ma solo motivi decorativi geometrici alle pareti. E’ un grande, grandissimo spazio, diviso a metà da colonne, due spazi simmetrici, complementari tra loro, senza la funzione di orientare lo sguardo o la preghiera verso un altare, un ricettacolo del divino, un luogo di sacrificio e d’annunciazione della parola. Così lo sguardo gira intorno, raccoglie la solennità astratta e irreale, senza potersi fissare su niente, ma avverte e subisce la forza di quel luogo, che deve riflettere essenzialmente la forza dell’Ordine Domenicano. Non a caso il vero centro della chiesa, anche se artificioso, perché aggiunto tardivamente, è il sepolcro di Tommaso d’Aquino.

Invece la basilica di St.Sernin ci accoglie, appena entrati, da una tempesta di note, un dies irae dell’organo, terribile e ossessivo. E’ il tocco e l’organista sta provando lo strumento per il concerto della sera e spara a corrente alternata vari attacchi di sonate, facendoci tachicardici ed ipertesi, ma esaltando l’enorme spazio, ordinato e funzionale, concepito per masse di pellegrini che devono essere accolti e organizzati in processione per adorare le numerose reliquie e legittimare così le soste, durante il Camino de Santiago.

Dalla guida Michelin emerge il nome di Viollett-le Duc, architetto restauratore ottocentesco (lo stesso di Carcassonne) e da allora lo sguardo che si posa sulle belle linee romaniche è velato di sospetto e d’incredulità. Ma la bella porta Miégeville ci tranquillizza, soprattutto il movimento dei colli torti verso l’alto delle statuine degli Apostoli, ad inseguire l’ascensione di Cristo.

Le cose viste mi si concentrano tutte insieme nella grande Place du Capitole e mi autorizzano una domanda: quanto forte è stata la minaccia, non tanto religiosa quanto politica ed economica, di questa grande e bella città a Parigi e alla Francia del Nord, da giustificare la violenza e l’efferatezza della crociata contro gli Albigesi, la lotta all’eresia solo pretesto ed occasione di sottomissione e ridimensionamento di Toulouse? E’ solo una suggestione e tale è destinata a rimanere, per niente surrogata da analisi ed elementi storici. D’altronde sono solo un turista!

Ripartiamo a malincuore, ma avevamo deciso di avviarci verso i Pirenei e non sappiamo quanto siamo effettivamente lontani. E’ comunque una sorta di forzatura e forse per questo sbaglio strada e mi porto di nuovo verso Toulouse, ma solo per poter gettare lo sguardo su marchingegni aereospaziali lungo la superstrada e poi di nuovo a sud.

Ai Pirenei arriviamo invece facilmente e rapidamente e in un attimo, il tempo di arrancare un dorsante boscoso dopo Luchon, siamo in Spagna, o meglio in Catalogna.

22 agosto

E’ una giornata bellissima, l’aria è tersa e fresca ma non è il caso di fare escursioni. Abbiamo girato tutto il pomeriggio precedente per trovare una camera d’albergo, ma un fine settimana d’agosto ha riempito (credo di barcellonesi) tutti gli hotel della Val de Boi, dove ci aveva attirato la presenza del Parc Nazional d’Aigues Estortes. Eravamo arrivati fino agli altopiani, lasciando gli occhi sulla chiesa romanica di Sant Climent a Taull. Niente! L’unica camera che avevamo trovato era al di fuori della valle e del Parco, in un vecchio hostal ristrutturato, a El Pont de Suert, un grappolo di case nate intorno alla strada principale, con aggiunte disordinate e senza alcuno stile. Così lasciamo i Pirenei, rimandandoli ad altre occasioni e a migliori previsioni, puntando diritti su Barcellona, Via Leida.

Ma vogliamo tappe intermedie, per rompere il viaggio e cogliere anche un po’ di Catalogna e la troviamo a Montblanc e al monastero di Poblet.

La cittadina ci attrae anche come rifugio al sole sempre cocente ed, in effetti, il giro delle mura contiene ancora uno stretto reticolato medievale, fresco e accogliente. Ma il sole è necessario ad illuminare ed esaltare la ricca facciata barocca della chiesa di Santa Maria, che occhieggia da sopra strette scalinate, su una piccola piazzetta con il pavimento a ciottoli. Simili scorci sono numerosi, nonostante la città sia racchiusa in un fazzoletto.

Non è così contenuto il Monestir de Santa Maria de Poblet, che ostenta tutta la complessità e la monumentalità di una certosa, in cui l’organizzazione dello spazio doveva riflettere la concezione generale dell’ordine celeste ed essere coerente e funzionale al rispetto delle gerarchie religiose e politiche. La guida che ci accompagna è brava ad illustrare la successione e la coerenza degli stili architettonici, le funzioni sociali e religiose dei tanti spazi, nonché gli aspetti organizzativi della vita monastica, ma quello che non può o non vuole dire o meglio non enfatizza, se non come aspetto cronachistico, è che quel monastero ha cessato la sua funzione storica e culturale da più di cento anni e che il suo restauro e ripopolamento sia stato voluto, come momento altamente simbolico, da Franco all’indomani della sua vittoria nella Guerra Civile. Emblematico in questo senso è il restauro totale del Panteó dels Reis, nei due bracci del transetto della grande chiesa del monastero, con gli scenografici sarcofagi rifatti ex novo di re e regine d’Aragona e Catalogna. All’uscita delle tre cinte murarie domando retoricamente ad Anna Maria quanto era opportuno accingersi ad un restauro così imponente e costoso, con un paese stremato e alla fame e sicuramente con altre e più drammatiche priorità.

Potrebbero esserci altre tappe ma l’ora e il bisogno di riposo ci suggeriscono di raggiungere Barcellona.

23 agosto

Barcellona, tra le tante definizioni, è stata chiamata anche città dei prodigi ed uno di loro è l’immagine che offre di sé al primo sguardo, perché nessuna città o metropoli che io conosca ha un ingresso così trionfale e maestoso come quello rappresentato dall’Avenida Diagonal, prolungato, teso, un rettilineo amplissimo che fende un viale di grandi cubi di cemento, d’acciaio e cristallo, di lunghe facciate moderniste, di hotel megagalattici, di grattacieli, di insegne ciclopiche alla fine di un multichilometrico percorso autostradale che attraversa le colline per poi entrare nella conca tra il Lobregat ed il Tenes. Ieri, ad un certo punto, mi si era illuminato il ricordo di quello stesso ingresso, di una stessa sensazione di stupore e di entusiasmo, a bordo di una Mini Ninor un po’ smarmittata, a cambio lungo, con Guglielmo e in una via che, nel 1968, si chiamava ancora Avenida Generalissimo Franco. Ma il prodigio si era riprodotto ancora ieri nelle Ramblas, che avevano attirato come noi centinaia di altri, non credo particolarmente attratti dai fiori e dagli uccelli e forse neanche dalle pose statuarie di manichini umani o dai cantori o musicisti o perfezionisti della breck dance, ma dal fluire stesso del viale e dall’essere parte di quella corrente. All’altezza della Plaça del Portal de la Pau la folla, anziché disperdersi in quell’incrocio sotto il gesto ieratico di Cristoforo Colombo, si era riallineata in un lungo corteo, per procedere oltre il mare, su un ponte modernissimo di tavole sottili e attraccare a un molo e a un grandissimo cubo specchiato e ridondante di luci, il Maremagnum.

Lì avevamo cenato, storditi, da buoni provinciali, dalle luci, dalle scale mobili, dall’offerta di sale giochi, bancarelle, fast food, discoteche, caffè, ostentata dietro immense vetrine, come immediatamente disponibile, consumabile, fruibile. Il ristorante aveva il pregio di tavolini in una terrazza appartata, in penombra, e da lì avevamo invece ammirato il prodigio della città illuminata sul suo fronte del porto, con dietro, discrete, le guglie e i picchi dei campanili e la cresta di Montjuïc e in fondo, lontano, acceso come un grande falò, il Tibidabo.

Ma ora è domenica mattina e la quiete quasi assoluta e la vicinanza ci consigliano subito il Barri Gotic, per trovarlo poco affollato di turisti con visibili solo i barcellonesi. I negozi chiusi e le vetrine sbarrate lo deprimono e si respira l’aria spenta di una metropoli addormentata o in vacanza, anche se le strade sono vicoli stretti, in ombra, che fanno da cassa armonica ai musicanti, i cui suoni sembrano dietro il primo angolo e invece sono dietro l’altro e poi ancora l’altro, tutti comunque nei dintorni della cattedrale, che all’interno rompe, come mi sembra tutto il gotico catalano, la fuga in alto delle colonne con le grandi volte a crociera, per coprire e proteggere nella vastità della navata centrale la preghiera e la riflessione terrena, senza produrre lo stordimento e l’estasi delle acute navate nordiche.

Quello che mi appare invece come l’espressione più originale del tardogotico catalano è la torre squadrata e stilisticamente modernissima del Palau del Lloctinent che fa accettare la mediocrità della vicina Plaça Sant Jaume, in cui osservo a lungo, sulla cupola variopinta del Palau de la Generalitat, lo sventolio delle due bandiere, vicine e simmetriche, della Spagna e della Catalogna.

Il caldo si è già fatto pesante e dopo la grande navata, anche questa a sala, della scarna e essenziale chiesa di Santa Maria del Mar, nonostante il richiamo del Museo Picasso, cerchiamo refrigerio nei giardini del Parc de la Ciutadella. Ma è solo un’illusione, nonostante l’ombra di palme piene di pappagalli. L’unico sollievo lo trova il mio spirito nello scoprire che il Passeig antistante il parco, con l’Arc de Trionmf dell’Esposizione Universale del 1888, è oggi dedicato a Lluis Companys, l’ultimo presidente della Generalitat della Catalogna repubblicana, fatto fucilare da Franco nei fossati di Montjuïc, dopo che i nazisti lo avevano catturato in Belgio.

Ma è il corpo che adesso pretende sollievo e attenzione e l’ottiene, il tempo di recuperare il Maremagnum, dopo una sosta “tecnica” nei bagni della bellissima e pulitissima Estació De França. La versione catalana dei McDonald, Pan y Companí, ci offre boccadillos al prosciutto di montagna, insalate, patate fritte e cerveza freddissima. E’ ancora il caldo, ma anche il bambino che è dentro di me, a suggerire nel primo pomeriggio la visita dell’Acquario, immerso in una penombra suggestiva, a stupire con le lente volute dei mille pesci, le loro mille espressioni colorate, i loro mille colori, ma, soprattutto, con il girovagare dei pescecani nell’acqua sopra il tunnel subacqueo.

Siamo in vacanza ma è difficile resistere alla frenesia del vedere e dopo una sosta ristoratrice in albergo, non ci scoraggia la salita al Montjuïc, perché è con la funicolare e nonostante per raggiungerla si rasenti il Barrio Chino, aggregato umano pieno di letteratura, ma credo maggiormente di miseria e di disagio sociale. Non lo sapremo mai in questa vacanza, lo subodoriamo dalla presenza, fino ad oggi insolita, di numerosa polizia. Saliamo rapidamente prima sottoterra e poi sopra un Luna Park, tra i gridolini di stupore e di eccitazione di chi è turista come noi, ma la vista di Barcellona dall’alto è un altro prodigio.

Dagli spalti del forte la vista è a 360° e coglie la piana, le colline, il mare ma io dirotto ossessivamente lo sguardo in basso, verso i fossati, che, a detta di Manuel Vázquez Montalbán, “arsero per le fucilazioni della quinta colonna fascista, prima, e di repubblicani sconfitti, poi” e che erano arsi nel 1909 dalle esecuzioni degli anarchici, tra cui Francesc Ferrer i Guardia, la cui lapide a Perugia, brilla ancora di luce sulla muraglia etrusca, anche per merito di mio padre.

La tentazione di farmi meditabondo è forte, ma è vinta dal vento leggero e dalla discesa aerea e poi è il Maremagnum a inghiottirci di nuovo.

24 agosto

Salgo rapidamente la stretta scala a chiocciola dell’altissima guglia, con il fiato mozzo e fradicio di sudore, come in preda ad un’ossessione, dandomi scuse nell’attesa in basso di Anna Maria o nella necessità di dare il passo agli altri turisti. Una giapponese scende, mugolando, vittima delle vertigini, con le braccia stese lungo la parete, quasi a aderirvi, ma il vuoto che mi circonda, percepibile solo gettando lo sguardo dalle infinite feritoie, attrae anche me, affascinandomi ed impedendomi contemplazione ed astrazione. Eppure potrei ammirare tutta Barcellona sotto di me, soprattutto la geometria dell’Eixample, ma l’attrazione è un’altra, perversa, e la salita è l’unica alternativa così come, immediatamente dopo il top, la discesa. C’è nella Sagrada Família un insieme incredibile di suggestioni, non solo architettoniche e neanche tanto religiose, quanto antropologiche, perché metafora della ricerca dell’onnipotenza e immortalità dell’uomo, a cui finalizzare ogni conquista tecnologica, a rischio della vita, intesa soprattutto come vita sociale. Il prodigio è che questa sfida continua, perché la chiesa è tuttora un cantiere aperto, dove si stanno innalzando le colossali colonne della navata centrale e di cui si stanno mettendo in opera le volte.

Abbiamo deciso di dedicare la giornata a tutti i prodigi di Barcellona, grazie alle due linee di bus turistici, create ad hoc per raggiungere i luoghi più famosi della città. Siamo in non piccola compagnia, compresi italiani arroganti e razzisti alla Bossi, ma non possiamo né vogliamo camuffarci e così, stretti come sardine, saliamo anche sulla Tramvia Blau del Tibidabo, vero reperto di archeologia industriale e sotto la statua monumentale del Sacro Cuore cogliamo quell’immenso panorama insieme ad un gruppo variopinto e rumoroso di anziani cubani (sicuramente di Miami). Ci evitiamo il Parc d’Attracions e siamo costretti a rinunciare a tutti i musei ed altre emergenze chiuse per il lunedì, ma ci concediamo il bus a due piani e dal livello superiore scoperto possiamo gettare lo sguardo su una Barcellona altrimenti invisibile in auto e faticosamente percepibile a piedi, a partire dalla Plaça de Espanya, il parco di Montjuïc, l’Anella Olímpica, la Vila Olímpica e la Via Layetana. Il sole ha picchiato fortissimo su di noi e raggiungiamo nel pomeriggio stravolti l’albergo.

Nella lunga sosta sotto il ventilatore concordiamo di offrirci un premio: un ristorante catalano. La Cuineta, alias la Bona Cuina, vicino la Cattedrale, sembra averne tutti i requisiti. Le paellas, marinara la mia e valenciana quella di Anna Maria, altrettanto, anche se la scelta era banale, ma volevamo apprezzare la natura di questo piatto, al di fuori dei soliti circuiti turistici. Non banale e ottima la crema catalana, per dessert. All’italiana il conto.

25 agosto

E’ vigilia di partenza e vogliamo dedicarsi ad un po’ di relax e all’acquisto di alcuni regali e il Passeig de Grácia sembra essere il luogo giusto, anche perché al suo inizio c’è il gigantesco edificio del Cortes Ingles. Nei fatti arrembiamo il grande marciapiede sotto i platani, per niente attratti dalle boutiques, mettendo a mente una bodega basca e una grande taverna camuffata da negozio di alimentari e filiamo diritti, da incontentabili turisti, alla Pedrera. Turisti o no, ne valeva la pena perché le suggestioni e gli interrogativi sono continui, evocati da semplici elementi di arredamento o di decorazione così come dalle strutture e dagli spazi. Sono i passamani, le ronde, le terrazze, i cortili, i camini, le tettoie, i passaggi, le volte, gli atri, le scalinate, le pareti a diventare meraviglie fino alla meraviglia generale del susseguirsi di curve continue, senza rottura di spigoli o il precipitare di rette e sopra tutto la meraviglia che tutto ciò è stato una casa, abitata e abitabile, solo oggi luogo congelato di rappresentazione di un potere, voluta dal committente borghese sicuramente come ostentazione della sua forza sociale, ma dentro uno spazio dove obbligatoriamente doveva convivere il valore d’uso e il valore di scambio.

Ad aggiungere meraviglia c’è anche quella che la guida del Touring chiama “manzana de la discordia” con ancora Gaudí e poi l’Editorial Montaner i Simon, ma sono tutti edifici visibili solo dall’esterno, e questo li rende solo quinte della strada, elementi essenzialmente decorativi, fino alla possibilità di sole facciate, prive di stanze e di spazi praticabili. Basterebbe una persona affacciata alla finestra o il rientro di un signore con il cane per ridarcele per quello che erano o forse per quello che ancora sono.

Sempre sul Passeig de Grácia, da buon turista, bevo un’orzata, vista in tante reclame e ci immergiamo poco dopo nella frescura artificiale del Cortes Ingles, a comprare bicchieri e brocche, Tio Pepe, Jerez, Mistela Pedro Masana e il tanto decantato Cava. La fame viene soddisfatta al Qu Qu (Quasi Quieviures), che è poi un ingresso strombato con banconi refrigerati di alimenti e un grande locale a due piani, con tavoli di legno scuro, un nugolo di camerieri e una buona offerta di piatti piccoli e grandi, caldi e freddi, prevalentemente catalani.

Solita siesta e poi a contemplare un po’ meditabondi il mare del porto, da più angoli e con le più luci del tardo pomeriggio, della sera, della notte e poi, quasi come sempre, Maremagnum.

Al ritorno, sulle Ramblas, il quadrante dell’orologio del Banco Bilbao Vizcaya spicca sul cielo nero, sopra i platani, come una luna piena.

26 agosto

Facciamo due grandi errori: visitare il monastero di Montserrat e attraversare i Pirenei Via Andorra.

La sbarra autostradale di accesso al complesso monastico, con relativo tiket, è l’avvisaglia che, nonostante lo spettacolo della catena di granito incombente, stiamo entrando di fatto in un grande megaparcheggio, dislocato lungo i chilometri di asfalto che precedono il grande complesso ormai moderno, per non dire, modernissimo, dove l’elemento sacro sembra solo funzionale all’offerta turistica, incredibilmente ampia ed in forme estremamente disparate, dal ristoro all’oggettistica, dal souvenir all’hotel di alta categoria, che soddisfa un’altrettanto ampia e disparata domanda, formulata da centinaia e centinaia di esseri umani. L’incredibile somiglianza con Cascia, anche se su scala enormemente superiore, ci sollecita una fuga immediata, ma è già fuggita mezza giornata e l’altra mezza ci fugge via mentre in macchina tentiamo di attraversare il lungo budello di negozi, supermercati, centri commerciali, alberghi, ristoranti che è poi Andorra La Vella e di superare i tornanti della Valira del Orient a passo d’uomo, essendo il traffico rallentato dall’imbuto, ormai anacronistico, della frontiera del Pas de la Case.

Siamo in Francia ormai, ma sempre in fuga, per guadagnare una sosta la più avanzata possibile per l’ultimo balzo in Italia, ma sembra che le valli e i tornanti non finiscano mai e con essi il traffico. E’ già notte quando torrioni e bastioni possenti, resi ancora più suggestivi dalla luce dei riflettori, ci fa rallentare, ma è soprattutto l’insegna invitante dell’Hotel du Cedre a farci desistere del tutto. Siamo a Villefranche-de-Conflent e l’albergo è piccolo e cadente e solo il sorriso della giovane e bella padrona ci fa passare sopra a tutto, che è poi non poter pagare con carte di credito, l’impossibilità di telefonare dalla camera, una doccia cadente, un coscio di tacchino quasi crudo, una sala da pranzo intabarrata nonostante il caldo reso ancora più afoso da una pioggia breve e rabbiosa. Me nel tutto va compreso anche il rumore del fiume, lo sferragliamento quasi patetico di un trenino di montagna e un’atmosfera romantica e decadente, alimentata anche da tre anziani tedeschi, due uomini e una donna, che a un tavolo vicino, con flemma e compostezza nordica, mangiano, bevono, parlano di politica per poi concentrarsi, in un silenzio assoluto, in un loro gioco da tavolo.

27 agosto

Un’unica tappa da Villefranche-de-Conflent a Perugia, dalle nove di mattina alle nove di sera, per 1.131 chilometri, senza cedere mai la guida. Un bel azzardo ma anche un pizzico di soddisfazione.

Per la statistica: compiuti un totale di 3.584 chilometri e speso a testa 1.800.000 lire.

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