Giovedì 24 aprile 1997
La travi di legno di ginepro, lunghe e contorte, che sorreggono in bella vista il tetto della casa d’Andrea, sono anche il supporto di tutti i tetti della vecchia Cagliari. La natura, generosissima in questo caso, è parte integrante anche se invisibile della città ed un suo frutto, quasi indistruttibile, è divenuto così preda ambita, merce di scambio e, fino a non molto tempo fa, manufatto insostituibile.
Questo segno di terra, di roccia, di tenacia, di resistenza protegge la nostra prima notte a Cagliari.
Venerdì 25 aprile 1997
Di primo mattino l’Orientale Sarda c’immette in un grande orto botanico. I cespugli fioriti del cisto e dell’euforbia, i prati di cardi rosa pallido, gialli, bianchi, viola, il verde del mirto, del lentischio e del timo selvatico, l’emergenza degli asfodeli, dei rosmarini e delle lavande e su tutti, per l’ostentata solitudine, la ferula con i suoi fiori gialli. A dare continuità al verde ginepri e corbezzoli, ma anche lecci e querce da sughero. E’ tutto così fino al valico del Monte dei Sette Fratelli ed anche dopo, perché la valle del Rio Cannas ostenta pareti boscate e un fondo valle di gore e salti d’acqua, ma anche di prati erbosi, ancora freschi di rugiada.
Solo in prossimità del mare, nelle piane alluvionali dei fiumi, il paesaggio si appiattisce e si scolora, né i paesi attraversati dalla statale portano colori o emozioni. I castelli, la storia, il mare, anche se vicini, sono invisibili. L’equipaggio della R5 accetta i chilometri di semplice attraversamento e si rinchiude nei propri pensieri, per aprirsi solo a brevi commenti, per animarsi un po’ a Genna’e Crésia, riappiattirsi nelle terre di Bari Sardo, Tortolì, Lotzorai e cambiare definitivamente tono a Santa Maria Navarrese.
Ma per la presa di possesso della stanza d’albergo e per l’immediata partenza verso lontane montagne azzurrine. Sono i monti sopra Talána, apparentemente una catena, ma, una volta risaliti, con strappi e tornanti, si rivelano un grande altopiano di pascoli, di macchia, di cespugli. Lontana ma evidente la punta La Marmora. La strada è ancora miracolosamente e misteriosamente asfaltata. Da essa usciamo improvvisamente e apparentemente senza motivo, per bloccarci poco dopo e seguire ubbidienti a piedi Andrea in uno zigzagare in un sottobosco rado, gli unici rumori quelli prodotti da un gregge di capre e dal vento tra i rami di numerose e gigantesche roverelle, ancora spoglie di foglie, ma per questo ancora più impressionanti.
Un breve camminare ci porta ad una piccola valle, incassata tra i graniti aperti e arrotondati da un torrente limpido e irrequieto. C’è il sole, rocce ampie e levigate, couscous “al modo di Calasetta” e formaggio Podda.
A malincuore si lascia, dopo la siesta, quest’angolo intatto, ma tornano a consolarci gli alberi secolari, una tomba dei giganti e una sorgente di freschissima acqua minerale. Si ridiscende di nuovo con la R5 avendo di fronte non più la cerchia di monti ma una grande valle e, a finire, il mare.
Cena di culungiones per Anna Maria, Andrea e Laura, pane pistoccu incasu per me, arrosto di pecora e porceddu per tutti.
Sabato 26 aprile 1997
Si risale di nuovo la corona di monti azzurrini, questa volta sul versante di Baunei, sovrastato da un mirador di roccia da cui si spazia sul mondo di ieri. E’ ancora altopiano, molto più cespugliato ed anche forestato, con maiali bradi incrociati con cinghiali. E’ il Golgo di Baunei. Lasciamo l’auto dopo che la strada è diventata sterrata e imbocchiamo un sentiero evidente e segnalato, che si allunga tra ginepri e corbezzoli, limitato da muretti a secco recenti e su un fondo di pietrame.
Sembra alta montagna, se non fosse per la macchia mediterranea e l’aria fina e fresca e poco dopo il sentiero comincia a scendere, gradevolmente e piacevolmente, con i lecci che diventano giganteschi, riparati da una valle che di fronte è sbarrata prima dal cielo e poi, ed è il mutare dell’azzurro a farcelo capire, dal mare. Il sole riscalda ed esalta i colori, verde e bianco e azzurro. Prima dell’ultimo precipitare della valle nel mare, si alza un altissimo pinnacolo di granito, liscio ed appuntito, il sentiero si rompe in un balzo di rocce e subito sotto c’è la sabbia di cala Goloritzé.
C’è gente giunta con le barche ed un branco di scalatori di free-climbing, ma una dolce risacca la fa da padrone e soprattutto il sole, gradito sui vestiti ma anche sulla pelle.
Dopo ore di nulla e di niente risaliamo il sentiero, sulla testa gli scalatori abbarbicati sul picco e giù una piccola folla che scende. Una birra gelata al ristorante tipico del Golgo, sotto una cupola di tronchi di ginepro mi ristora e mi spegne le fantasie di sacrifici umani nuragici nel profondo inghiottitoio carsico sull’altopiano.
Ancora cena sarda nel ristorante della sera prima, ma niente arrosti e due bicchieri di filu u ferru, grazie alla loro genuinità, mi favoriscono un sonno profondo.
Domenica 27 aprile 1997
Ancora l’Orientale Sarda, prima Baunei e poi più niente, né abitati né segni di presenza umana, se non sentieri e tratturi, invece aperture improvvise su gole profonde o linee di cresta lontane, altopiani deserti, pareti bianche di rocce calcaree, forre, ferule sui bordi e perastri fioriti sulle radure. La strada aggira, costeggia, scende e risale mentre il mare è scomparso, sopraffatto dal petrame e dalla macchia, dalle gole e dai pinnacoli di roccia. Il cielo è cupo, grigio, a coprire il sole e ad appiattirne la luce e le case cantoniere sembrano tracce umane inutili, anche per il loro abbandono. Fino alla fine il paesaggio selvaggio ed i bastioni di roccia spaccati nella gola di Su Gorroppu riempiono gli occhi fino alle prime case di Dorgali.
Poco oltre, prima di Oliena, raggiungiamo il più famoso ristorante albergo della Barbagia, il Su Gologone, omonimo della vicina grande sorgente carsica, per prenotare le camere e ripartire subito verso la valle di Lanaìttu. E’ una conca verdissima in contrasto con le pietraie lunari delle creste che la circondano. Tentativi di coltivazioni abortite e alberature a filari regolari non riescono a addolcirne l’asprezza. Lasciata l’auto, in poco tempo imbocchiamo un sentiero da capre, ripido, poi ripidissimo, ghiaioso e rovinato da un traffico intenso, richiamato dal fascino della nostra meta: il villaggio nuragico di Monte Tìscali.
La salita non è molta, basta farla con le mani e con i piedi, dando strada alle decine di giovani e vecchi, uomini e donne, attrezzati e non, tutti sfiatati ed entusiasti, fino ad una stretta fenditura, al limite del ciglio di roccia, vero accesso naturale, facilmente difendibile, ad un camminamento calcareo a picco sulla valle sottostante che conduce ai bordi di uno sprofondamento tettonico circolare, al cui interno sono ancora visibili, nonostante le depredazioni, due villaggi nuragici, con capanne circolari in pietre cementate con malta di fango.
Il sole che in quell’ora penetra dall’alto esalta il verde delle felci e dei lecci, i toni rossastri delle pareti aggettanti del cratere, le simmetrie dei fondi di capanna. Una grande feritoia sulle pareti si apre con una vista netta e pulita della valle di Lanaittu.
Seduto su un sasso rumino pecorino, torrone e pensieri fantastici sulla preistoria.
Il ritorno è facile e veloce, per il miraggio dell’acqua della sorgente e del comfort dell’albergo e per un temporale incombente.
In effetti l’acqua buonissima, la camera arredata con gusto, ascoltare a letto la pioggia battente è bello.
A cena per me culurgiones, cinghiale, la coratella avanzata di Andrea e Laura, sebadas.
Lunedì 28 aprile 1997
Un vento violento ha spazzato il cielo e così il Golfo di Orosei è brillante di luce, un po’ meno Cala Gonone che, deserta di turisti, presenta solo lo scheletro della socialità fasulla dei posti di mare alla moda. In un attimo di follia chiedo ad Andrea di girare un po’ l’abitato alla ricerca delle villette di inizio secolo che i nuoresi agiati raggiungevano con un lungo e disagiato viaggio. Introvabili o forse inesistenti. C’è comunque la cabina telefonica per notizie fresche ed aggiornate sulle elezioni in Umbria, di cui la sera prima la televisione aveva dato i primi anticipi. Un po’ rasserenato sono pronto per Cala Fuili, poco a sud di Cala Gonone, la piccola foce di un torrente pietroso in secca, ricca di frescura, di ghiaia e di acqua cristallina. E’ riparata dal vento, il sole bello caldo e il libro di Chatwin si concilia con il tutto. Si riparte troppo presto ma la meta finale della giornata è lontana.
La R5 scorre veloce sulla statale fin sotto Nuoro e poi oltre le ciminiere di Ottana, tocca poi il lago Omodeo, per sboccare poi nella Carlo Felice. Tutt’intorno un verde diffuso a vista d’occhio, nelle colline, nei prati, nei pascoli, questa volta strappati al giallo delle stoppie e al grigio degli incendi. Le decantazioni della Guida Rossa ci obbligano ad una visita del nuraghe Losa, ma mi sembrano al primo impatto esagerate, per la vista di un torracchione basso e sbrecciato. Ma basta spostarsi di visuale per cogliere una cortina lunga e regolare di pietre, ad inglobare non una ma più torri ed altre in aggiunta, tutte all’interno di un vasto recinto murato ed anch’esso turrito. L’ingresso al nuraghe è coperto da una torre quasi attaccata alla muraglia, a renderlo quasi invisibile ma senz’altro difendibile e dentro una prima suggestiva cupola di pietra e tra questa e la muraglia esterna una scala sale a spirale fino ad un altro vano a cupola e poi ancora fino alla terrazza superiore aperta alla luce e ancora ai lati della prima altre cupole e grandi nicchie aperte nello spessore del basalto e immerse nella penombra, in forme e modi del tutto inimmaginabili dall’esterno. Il senso del mistero è forte e anche desiderabile, per cui a nulla valgono le ipotesi che tutti e quattro ci comunichiamo e le spiegazioni del piccolo museo. Rimangono comunque fortissime ed intatte le suggestioni evocate da quel manufatto di pietra.
Prima ancora che si dileguino siamo già a Santa Cristina e non è tanto la chiesa campestre circondata da muristenes a rinnovarle, quanto un altro antico villaggio con una grande tomba dei giganti, ancora coperta da lastre e terriccio, nato intorno ad un severo nuraghe ed immerso in una fitta boscaglia di olivastri. Ma è soprattutto la geometria incredibile per modernità ed arditezza del pozzo sacro ad evocarmi altre ed irrefrenabili fantasie, alimentate dallo sgocciolio eterno dell’acqua, mentre sto seduto sulla scalinata come nella prora di un’astronave penetrata nella terra, per garantire l’offerta dell’acqua da parte di altri mondi ad un altro mondo ancora.
Fantasie di un attimo, subito disturbate dalla realtà di altre voci o di nuove necessità, altrimenti sarebbe un altro stile di vita o la follia.
Di nuovo la fuga veloce dell’auto sulla Carlo Felice, mentre l’isola si apre nella sua grande pianura, le montagne ormai lontane se non nei loro profili e così anche il mare, quasi fossimo in un continente.
Ed è continentale la periferia di Cagliari, metropoli forse da sempre, oggi comunque intasata e trafficata come la vera città madre della Sardegna, popolata ed urbanizzata in eccesso. I suoi capannoni industriali e le prime serie di palazzoni nascono come all’improvviso dal Campidano. L’aggrediamo alle spalle, indifesa ed irriconoscibile e la penetriamo senza riconoscerla, fino all’Hotel Calamosca.
Siamo di nuovo sul mare.
Martedì 29 aprile 1997
Al grande mercato coperto più che i pesci osservo i venditori, le mosse, i richiami, le facce. Uomini soprattutto, pochissime le donne. Nessuno si scompone, né gli inviti sono ossessivi, pochi gesti ad ogni banco, anche a quelli della frutta, nonostante la folla dei compratori. Molti sono anziani e qualcuno quasi scultoreo, come quello che ci vende il formaggio, parco di parole, ma di consigli netti ed essenziali. Nessuno è mellifluo, venditore per forza, seduttore. Gli unici movimenti sono quelli di mani grandi ed agili che bloccano le aragoste, tastano la bottarga, avvolgono nella carta paglia sbuffata di nero le seppie, impilano le scatole di buzzonaglia di tonno, selezionano le arance vasintò, spiluzzicano i pomodori camona.
Fuori un forte vento di maestrale tiene lontano la pioggia, agita polvere e sabbia, facendomi insaccare la testa nelle spalle, le mani sprofondate nelle tasche e in capo già un’aura di malessere.
Questa volta Cagliari è di faccia, con i bastioni a succedersi in alto, le case e le vie a digradare in basso verso la marina, guardata da un fronte compatto di palazzi ottocenteschi porticati. E’ come d’obbligo salire, attirati dalle torri pisane, per oltrepassare valichi di grandi cortine murarie a rinserrare ancora case, poche, rispetto ai palazzi, agli arsenali, ai depositi di uomini e cose, alle chiese. Sempre tramite una porta antica si entra nella originale rivisitazione della cittadella dei musei, che rinserra e mette a contrasto la modernità del luogo con la essenzialità e la espressività anch’essa moderna della rappresentazione di forme umane, di gesti sacrali, di atti rituali, già di migliaia d’anni.
Il Palazzo Viceregio è aperto alle visite, ma quadrerie di viceré parrucconi, salotti damascati, chincaglierie savoiarde non eccitano nessuno di noi, neanche la sala del Consiglio Provinciale, pretenziosa anche grazie al nostro concittadino Bruschi. E neanche il Duomo e così si preferisce gironzolare, per cogliere da slarghi improvvisi vedute di tetti, di stagni e marine e anche del Campidano e i rumori e gli odori della città vecchia, nonostante il vento ci ballonzoli, più che la curiosità, di qua e di là.
Il sole ormai è di traverso quando ci rintaniamo a casa di Andrea, ma l’ottima cena, a base di fregula con arselle, lumache di mare ed aragosta alla catalana, è condita da un mio spietato mal di testa.
Mercoledì 30 aprile 1997
La spiaggia del Poetto non sembra meritare la sua fama. Dimensioni a parte, la vicinanza della strada la banalizza e immiserisce l’antica pineta ed è rimasta, senza un progetto di tutela e valorizzazione, come il grande solarium di sabbia dell’ex sanatorio oggi abbandonato.
Altra cosa è la costa a seguire dove i rilievi verdi di macchia mediterranea precipitano direttamente in mare, in una frana continua di rocce e scogli granitici. Siamo pronti a gustarne i colori, stravolti dall’acqua, ma il sole in un attimo è coperto da una nuvolaglia pesante e scura. Niente mare pintau ma la penisola del Capo Carbonara rimane affascinante, con la prospettiva contemporanea dei due bracci di mare e le (troppe) case affogate dalla natura e dai loro colori terrosi. Il forte di Villasimius battuto dal vento e oppresso dalla nuvolaglia, che già scaglia goccioloni, distoglie dal lavorio del cantiere del porto turistico, ma molto più la spiaggia dello stagno di Notteri, dove le dune cespugliate e fiorite arrivano quasi al mare.
Nonostante gli scongiuri il temporale si scatena, abbattendo ogni nostra velleità ed esaltando solo la fettuccia di asfalto che ritorna a Cagliari.
Nel tardo pomeriggio il ritorno del sole permette a me ed Anna Maria la riscoperta del Castello, per ritrovare confermate le piacevolissime sensazioni del giorno prima, sui bastioni, tra le corti militari e i palazzi universitari, sotto i portici e i vicoli della Marina e di Stampace, esaltate dall’aria dolce e dall’assenza di vento e di mal di testa. Shopping di gastronomia sarda e cena da Andrea con risotto al nero di seppia, spigole alla vernaccia e/o al cartoccio, mirto casareccio a chiudere.
Giovedì 1 maggio 1997
Le ultime tracas ritardatarie le incontriamo in Via Roma mentre raggiungono, ballonzolando sul selciato ed attraverso residui di traffico, il luogo della formazione del corteo, vicino all’Orto Botanico.
Tagliamo per Largo Carlo Felice fino a Piazza Yenne, dove già la folla si assiepa e Sant’Anna è a due passi e davanti c’è la casa di Andrea, anche se ora ci interessa la scalinata della chiesa, osservatorio rialzato ma vicino al percorso e arrivano subito i primi tori, la testa alta a sostenere il giogo, mentre il loro corpo è così enorme che sembra sopravanzare non il telaio e le grandi ruote del carro, ma la bardatura di tappeti, di canne, di fiori, di arbusti, di ninnoli, strumenti, arnesi, utensili che vi è appesa ed anche la folla di uomini, bambini, donne, ragazzi, vecchie e vecchi, loro a coprire ogni vuoto effettivo del carro, in un ordine di statue viventi, nonostante la fisarmonica ed allora solo la bocca entra in movimento per il canto, senza alterare fisionomie e alterigie, perché, soprattutto le ragazze, sono lì a mostrare per il paese di appartenenza la propria bellezza e, comunque, gli ori dei gioielli o le trine e i ricami dei costumi.
Le tracas si susseguono, lentissime, condizionate dalla pesantezza dei tori e del carico dei carri e dall’ordine del corteo. Questo permette di osservare ogni particolare dell’addobbo, di cogliere gli sguardi delle ragazze, di interpretare le espressioni degli uomini, di afferrare i saluti timidi delle vecchie, di apprezzare l’assoluta indifferenza degli anziani e, su tutti, ammirare l’incedere solenne delle bestie, la maschera di fiori sul muso e sui corni e, tra i colori dei petali e dei fiocchi, i grandi occhi scuri e indifferenti, apparentemente insensibili alla folla che cresce e ci stringe.
Quando arrivano i primi gruppi a piedi, Andrea e Laura ci chiamano dal balcone ed è d’obbligo salire, se non altro per non snobbare un privilegio. In effetti dall’alto la vista corre lungo tutta Via Azuni ed apprezza la scenografia dei gruppi che scendono avendo alle spalle la cancellata e la facciata della chiesa di S.Michele, che sembra messa lì apposta, anche perché i costumi vi arrivano di botto come su un palcoscenico, sbucando da un arco a gomito. E’ tutto lentissimo, anche se non appare più la pesantezza dei bovini, sostituita per da un incedere solenne degli uomini, in cui il costume, al di là delle varianti paesane, propone comunque tutti elementi che sembrano di un antico abbigliamento guerriero, anche se di panno, comunque il nero a prevalere sul bianco, entrambi esaltati da aggiunte vivacissime di colori, soprattutto nei gilé.
Le donne affiancano gli uomini in coppia, o procedono tra loro in quadrighe o allineate, molte con le mani sui fianchi, le spalle aperte ad ostentare il seno stretto nei corpetti colorati e damascati o gli ori e gli argenti oppure le mani ad aprire a conchiglia sui volti e i gioielli gli scialli se non addirittura le sottane rovesciate sul capo. Altrimenti sono veli monacali, copricapi arabi a coprire più che a ostentare ed è sempre il nero a dominare, anche se tra le pieghe delle lunghe vesti, tra le trine delle mantiglie, i risvolti e gli sbuffi delle maniche offrono un balenio di colori vivacissimi e sfrontati.
Sotto le lunghissime vesti appaiono le punte di scarpe damascate mentre negli uomini, sotto i gambales, scarponi da pastore, tranne i pochissimi piedi nudi di genti di costa e di mare.
E’ tutta la Sardegna che sfila, tutte le genti e i popoli, le influenze e le autarchie, le cose tramandate e quelle acquisite, le berritta ma anche i pompon, il nero e il rosso, e il viola, i panciotti e i mantelli di capra, le bisacce e i bastoni e la musica preistorica, sibilante, ossessiva delle launeddas, l’unica, oltre le partigianerie locali, a sollevare l’applauso della folla.
E poi i cavalieri, i cavalli soprattutto, nervosi, impazienti se costretti a quadriglie, ad affiancarsi stretti tra il muri della case e i fiati e i rumori della gente, in un ordine di valentia e di capriccio, altrimenti statuari a sorreggere altre statue in costume, anche in coppie spagnolesche, a riproporre un’altra solennità animale, rispetto ai tori, basata sull’eleganza e sull’agilità delle forme, a decine e decine, forse centinaia, mentre l’odore acre degli escrementi si afferma con forza su tutto, rivelando l’asprezza di quella manifestazione di forza e di dominio.
Sono passate già alcune ore quando una frenesia improvvisa agita il vicolo di fianco a Sant’Anna e questo si trasmette nella folla vicino ed anche nel balcone, mentre sulla strada è ormai monotono il passaggio dei cavalieri miliziani, troppo uguali e troppo finti.
Il carro dorato con la teca di Sant’Efisio avanza lentissimo, di nuovo con i tori, preceduto da guardiani a cavallo in frac e cilindro, compreso l’alternòs con la fascia tricolore, confraternite, valletti, preti, sotto una nuvola di fiori lanciati dalle finestre e dai balconi, nell’emozione e nella partecipazione della gente e il sole è subito coperto e comincia a piovere.
La Sagra di S.Efisio per noi è finita, anche se il carro continua il suo viaggio per Nora e ritroviamo costumi e colori nei bar e nelle panetterie a cercare rinforzi per lo stomaco e riparo per la pioggia.
E’ uno dei miei primi maggio senza lavoratori e comizio, con una pioggia battente che durerà tutto il pomeriggio, costringendoci in casa di Andrea, anche se la scusa è la cottura del porceddu.
La notte, l’ultima notte in Sardegna, dal balcone dell’albergo, ammiriamo il cielo di nuovo stellato e ci facciamo ipnotizzare dal faro di Cala Mosca.
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