
Martedì, 31 agosto
Rispetto a vent’anni fa il primissimo impatto con la Sardegna è diverso. I muretti a secco e le macchie di mirto e di corbezzolo facevano tenerezza e le montagne m’incutevano più soggezione. Ma era forse una questione di luce, essendo allora l’alba, mentre oggi il sole è già alto e tutto è più piatto e lucente.
L’auto fila via rapida da Olbia in un panorama aperto, quasi dolce, circondato da lontani orizzonti, di cui si percepisce qualche asprezza. Il Logudoro non ci trattiene, non solo perché abbiamo altre mete, ma perché per chilometri non percepiamo emergenze, se non un nuraghe solitario, a guardia della strada. Ed anche la Carlo Felice ci risucchia ed è male perché filiamo via senza neanche accorgerci della Valle dei Nuraghi fino a Macomér, per puntare al mare, passando, sempre veloci, per Tresnurághes e Cúglieri fino a Santa Caterina di Pittinuri.
Era questa la nostra meta ma l’albergo, anche se vicino alla torre di Filippo II e a picco sul mare, ci appare desolato ed il mare sottostante e la bella baia ci sembrano contaminati da troppe case. Neanche il segnale turistico di Córnus ci trattiene, né la vista della gran pineta e delle dune d’Is Arenas e così continuiamo la tappa oltre Cabras, a Marina di Torre Grande. L’hotel è caro e sottotono, ma è sul mare e noi siamo stanchi.
Dalla finestra, oltre il mare luminosissimo, s’intravede la striscia di terra di Capo San Marco.
E’ la nostra nuova meta, perché siamo ancora in pieno pomeriggio e una doccia e il riposo ci hanno già rinfrancato.
La guida del Touring Club ci consiglia una deviazione per il villaggio religioso di San Salvatore. Una volta trovato facciamo fatica ad individuare la chiesa campestre, perché distratti dal recinto delle cumbessias, piccole casette a capanna di cui non capiamo né l’uso né le caratteristiche. Ma è la prima volta che vediamo una cosa del genere, né sappiamo niente di riti e di novene. La chiesetta è aperta ed il sagrestano, che sta facendo un ordine frettoloso all’altare, neanche risponde al nostro saluto e l’ipogeo, antico santuario pagano nuragico, è invisibile. Solo un fedele più tardi ci dice che la visita non è possibile e così usciamo perplessi dal recinto, leccando un gelato comprato più per dare un valore a quella visita che per gusto e incontrando altri turisti disorientati.
Poco oltre non riusciamo a scrollarci la nostra perplessità di fronte alla chiesa di San Giovanni in Sinis, in un villaggio di casette anonime, per niente ravvivato dalle barraccas, capanne di tronchi e paglia, un tempo dimora dei pescatori, ora dei turisti.
Mi sembra tutto sottotono, quasi insignificante e il sole, velato da strane nuvole, produce una luce quasi senza ombre.
Con questo spirito raggiungiamo le rovine di Thárros e, nonostante la promessa scritta d’accompagnatori qualificati, non trovando nessuno, ci addentriamo su un basolato dissestato, cercando di decodificare, tramite la Guida Rossa, strade, piazze, case, botteghe puniche, cartaginesi, romane.
Quasi disperati, veniamo agganciati dal parlare con forte accento sardo di un omaccione grasso e cupo che guida un gruppo di tedeschi, distratti e annoiati dalla traduzione dell’interprete.
A quel punto comincio a capire dove sono, anche perché la guida è colta e sicura ed anche simpatica, nonostante il tono burbero ed alla fine del percorso c’indica un altro gruppo, con un suo collega che ricomincia il giro e che ama il suo lavoro e la Sardegna soprattutto e che sa d’archeologia ma anche di storia e gli piace la gente o per lo meno gli piacciamo noi e così spara tutte le cose che sa, o quasi tutte, perché sono tante e tutte dette al momento e al punto giusto e poi il sole si è liberato dalle nuvole e il mare adesso è tutto turchino e abbraccia quasi le rovine, sovrastate in alto dalla torre barbaresca di San Giovanni.
Sono come rinato e solo adesso mi sento di essere in Sardegna e mi sento bene.
Entrambi euforici, con il sole che sta calando, risaliamo con l’auto il Sínis, oltre San Salvatore, per buttarci in una strada stretta che muore sul mare, in un essenziale stabilimento, in quel momento deserto, con una lunga spiaggia, su cui arriva quasi subito la terra, sassi cioè e sterpi ed anche pascoli, per cui la sabbia è poca. La strada muore asfaltata ma continua a seguire la spiaggia come carrareccia prima sabbiosa e poi sassosa, che poi costeggia scogli e infine pareti di roccia a strapiombo sul mare. Davanti l’Isola di Mal di Ventre e su di essa il sole tramonta.
Quando rientriamo verso l’interno, attraversando una bassa macchia di mirto, ginepro e corbezzolo è la luna a guidarci fino a Cabras, in un ristorante dove cerchiamo invano merca di muggine e anguille. Ci bastano la buridda, la bottarga e gli spaghetti alla marinara per finire il primo giorno nell’isola.
Mercoledì, 1° settembre
Oristano è l’occasione per buone paste in piazza Roma, per un inaspettato angolo monumentale di fronte alla Cattedrale e per l’acquisto di un coltello Pattada. Ben altre emozioni offre l’Alta Basilica di Santa Giusta e poi Arborea, inaspettata colonia neogotica e liberty, immersa nel verde.
A Terralba la sosta è d’obbligo perché terra avita di Virgilio e quindi occasione per l’invio di una cartolina, in questo caso non rituale turistico, ma vera testimonianza.
La Carlo Felice c’inghiotte nuovamente e i resti degli incendi cominciano insistentemente ad annerire il panorama e, a volte, ad insudiciare anche l’aria. Usciamo a Sárdara per il tempio nuragico a pozzo di Sant’Anastasia ma veniamo sconfitti da un torrido caldo pomeridiano e dalla mancanza di qualsiasi segnalazione. Arranchiamo sulle colline dietro il paese, avendo come guida, questa volta, un articolo di Tuttoturismo che invita alla ricerca dell’ultimo nuraghe, lontano dal mare, dentro i Giudicati meridionali.
Villanovaforru ne è indicata come possibile base, anche perché l’Hotel Le Colline offre pulizia, un buon ristorante e prezzi medi. Dalla collina, dove è ubicato, il panorama è amplissimo su piani e colline, con l’altopiano della Giara di Gésturi che si offre come orizzonte. Il giallo è il colore dominante, con bordature verde cupo e poche macchie di bosco e l’ampiezza della vista entra in pieno contrasto con la consapevolezza di essere in un’isola.
Villanovaforru è un tipico paese sardo, privo di monumentalità e d’emergenze artistiche, con abitazioni quasi standard nei loro due piani e nell’intonaco non sempre colorato, le finestre a serranda sempre serrate, come fossero abbandonate, anche perché né fiori né gerani le abbelliscono. Ma il paese è pulitissimo e ordinato, ma sembra abitato solo nella piazza della parrocchiale per numerosi arredi urbani e mucchi d’anziani all’ombra del municipio.
Sempre sulla piazza il Monte di Soccorso, l’antico Monte Frumentario, è la sede di un bel museo archeologico, piccolo ma ricco di reperti del vicino nuraghe di Genna Maria, sistemato con cura e con gusto sui due piani del palazzetto, con vicini altri locali, strutturati a centro visite ed oggi ad ospitare una bella mostra etnografica sui pani e i dolci della Marmilla e in un’altra appendice ancora la biblioteca comunale, a confermare pienamente la sensazione d’attenzione e d’efficienza.
Un ricco antipasto di pesce, spaghetti alle arselle, pesce spada e Nuraghe Majore ci mandano a letto ancora più contenti.
Giovedì, 2 settembre
Puntiamo l’auto verso la Giara di Gésturi, ma prima deviamo verso Siddi, attirati dalla descrizione che la guida della CLUÐ fa della sua Giara e della chiesa campestre romanica, ma la seconda ci sembra poca cosa così puntiamo su Tuili, ma il ciclo pittorico cinquecentesco del Maestro di Castelsardo è dentro la parrocchiale sbarrata ed allora non rimane che riprendere la vecchia direzione.
Sulla strada c’è Su Nuraxi, il nuraghe per antonomasia, pietra su pietra a costruire un mastio centrale, bastioni circolari, torri, cortili, mura, un villaggio di decine di capanne, nient’altro che pietra, inimmaginabili gli arredi, le suppellettili, per non dire uomini o donne o bambini, se non anche loro di pietra o al massimo di bronzo. Tutto sembra ridiventato natura. Davanti si stende una piana non più gialla, ormai scura, per gli incendi e per il lavoro del trattore e su un cucuzzolo conico i resti del castello di Las Plássas, in linea con il nuraghe, ma in totale antinomia, di tempo e forse anche di funzioni.
Non c’è sosta a Barúmini e neanche a Gésturi e quindi imbocchiamo subito la strada che sale con alcuni tornanti alla Giara.
Sono poco più di 500 metri di altitudine ma il panorama si allarga e diventa immenso, per poi sparire quando imbocchiamo la carrareccia che si addentra sull’altopiano, tra la macchia mediterranea e le sugherete, aprendosi ogni tanto su praterie erbose e su laghetti, ora completamente secchi.
E’un panorama che diventa quasi subito monotono, piatto, chiuso dalla vegetazione uniforme, senza rilievi, non ravvivato dai pochi resti di capanne e di case, né dai cavallini, tranquilli, assorti nel pascolo, lenti nell’allontanarsi quando diventiamo troppo curiosi.
Si fa presto ad attraversare tutta la Giara ed a tornare per poi ridiscendere a Gésturi per fare poi tutto il giro toccando Genoni e poi Sénis ed infine Áles.
Se non fosse stato per cercare la casa natale di Gramsci e la piazza con il monumento di Giò Pomodoro non ci saremmo fermati, e forse neanche venuti, ma siamo anche alle falde del monte Arci, citato come una delle più importanti stazioni preistoriche di tutto il Mediterraneo per la raccolta dell’ossidiana.
Sembra un monte e come tale ne saliamo le pendici ripide, anche se con una buona strada ed invece è un altro altopiano, incredibile per l’ampiezza ma soprattutto per la ricchezza di boschi, sugherete e lecci secolari e per niente toccati dagli incendi. La strada termina alla sorgente di S’Acqua Frida ed il caldo del pomeriggio è vinto dalla frescura della foresta.
Se ci fosse più tempo si potrebbero provare a piedi i sentieri che si aprono né sottobosco.
Ridiscendiamo dopo una mangiata di more per continuare il giro alle falde della Giara di Gésturi toccando Gonnoscodina, Gonnostramatza, Collinas ed infine Villanovaforru.
Prima di rientrare in albergo visitiamo su un toppo antistante gli scavi del nuraghe Genna Maria, anch’esso villaggio fortificato, in posizione magnifica, anche se i resti non hanno l’imponenza e la suggestione di Su Nuraxi.
Ancore pesce e Nuraghe Majore per terminare la giornata.
Venerdì, 3 settembre
Puntiamo di nuovo verso il mare ma di nuovo sosta a Sárdara per il pozzo sacro. In un ampio recinto, come scavato tra le case, che fanno cornice tutt’intorno, la chiesa tardogotica appare l’unico elemento evidente, tra scavi archeologici che fanno affiorare basamenti d’edifici, pietre e scheletri umani. L’uomo che ci accoglie, provenendo dal gruppo che traffica lì intorno, per gli scavi e i restauri, è gentilissimo ed è lui che ci guida dentro il pozzo, poco fuori la chiesa, costruito in grossi blocchi di basalto a formare in alto una falsa cupola, privo dell’acqua per l’azione continua di una pompa, nonostante la richiesta delle donne del paese per utilizzarla come lenimento dei dolori e del corpo e forse dell’anima.
Gli scavi e la chiesa sono spiegati con essenzialità dalla nostra guida, che è poi un operaio tessile cassintegrato da anni, adibito a lavori socialmente utili, ma che è anche un appassionato e con discrezione e disponibilità ci offre non scienza, ma letture e interpretazioni anche soggettive, soprattutto sui nuraghi, per lui luoghi di culto, perché per niente convinto dall’efficacia militare delle costruzioni, ed anche per niente preoccupato di difendere l’immagine di un popolo bellicoso e inconquistato, essendo, secondo lui, sempre vittima d’ogni invasione giunta via mare.
Ripartiamo con dentro molte domande ancora da fare, non tanto sulle cose antiche, quanto sul presente, ma è già mattina inoltrata e il nuovo hotel, contattato per telefono, ci attende per il pranzo.
L’auto attraversa veloce il Campidano, lungo fettucce diritte d’asfalto, toccando San Gavino Monreale, Gúspini ed infine Arbus, ai piedi di una catena di colline di roccia rossastra, ricca di verde, in gran parte sfregiato dagli incendi. La strada risale e, appena scollinati, una deviazione si butta in basso, con ampi tornanti, fino a quando l’asfalto si interrompe di botto, all’altezza di una chiesa e non oltre uno strano arco neogotico, con una loggetta di legno con finestre a sesto acuto.
E’ l’accesso trionfale al villaggio minerario d’Ingurtosu, oggi pochissimo abitato e fatiscente, un’intera valle fittamente boscata a pini, piena di case diroccate, d’opifici sfondati e di miniere abbandonate, tra cumuli di sedimenti minerari. E’ uno spettacolo spettrale, addolcito dal verde degli alberi.
La strada scende dissestata fino a spianare su un fondo sabbioso e a costeggiare il rio Piscinas, con un rigagnolo d’acqua che punta al mare ormai vicinissimo, anche se nascosto da dune sabbiose, ricoperte di macchia
mediterranea.
Arriviamo così all’improvviso all’edificio che fungeva da deposito dei minerali, prima dell’imbarco e che adesso è un hotel, elegante, discreto, arredato con molta cura e buon gusto, a rappresentare nelle fotografie, nei quadri, nelle mappe incorniciate ed anche in alcuni mobili e arredi la sua vecchia origine.
In un silenzio ovattato mangiamo sulla veranda, guardando il mare con gli occhi socchiusi per l’intensa luminosità ed il pomeriggio è tutto sulla spiaggia. E’ una striscia lunghissima con alle estremità punte rocciose, vagamente distinte dal cielo ed appena un pò più dal mare ed alle spalle una cornice di monti segmentati, netti e imponenti, con profili che sembrano possibili solo nelle Alpi.
Si cena in punta di forchetta ma non alla grande.
Fuori, nel patio immerso nell’oscurità, il silenzio è assoluto e nessuno lo turba, non gli ospiti, neanche il mare né i due cani dell’hotel.
Sabato, 4 settembre
E’una giornata che vogliamo dedicare tutta al mare e al riposo, ma il sole è velato da una nuvolaglia grigia ed il mare agita onde e spume.
Ciò nonostante siamo presto sulla spiaggia per resistervi tutta la mattina, passeggiando, esplorando il retroterra di dune, leggendo, ma alcune gocce ci anticipano il pranzo e quando si scatena una furiosa tempesta di sabbia e poi un diluvio d’acqua siamo in camera, a dormicchiare.
Riprendiamo a gioco forza l’auto a metà pomeriggio, con il sole che tenta di riprendere spazio, per risalire la costa verso nord, sfruttando una carrareccia che poi si trasforma in una asfaltata panoramica toccando alcune marine, dove stanno nascendo residence e villaggi turistici.
E’ la Costa Verde, ancora largamente incontaminata, resa ancora più selvatica dall’atmosfera già autunnale.
A Marina di Arbus la strada si allontana dal mare, non di molto, ma quanto basta per trasformarsi in una fettuccia d’asfalto, resa lucida dalla pioggia, che serpeggia tra basse colline, quasi in falso piano, con numerosi saliscendi che aggirano piccole valli ricche di macchia mediterranea e rese più vivide dall’umidità recente.
A decine, uomini, donne, bambini, con stivali e incerate, raccolgono lumache.
A Sant’Antonio di Santadi ritroviamo gli stagni dell’Oristanese ma deviamo di nuovo a sud, lambendo le falde di una cresta di monti che ormai ci separa nettamente dal mare, avendo a destra i primi lembi del Campidano.
Giunti di nuovo a Gùspini, arranchiamo verso Montevecchio, e dopo i primi grossi sedimenti minerari, compare maestoso l’intreccio di torri, scale, tettoie e nastri trasportatori della miniera abbandonata, ormai immobili. Dopo pochi tornanti siamo immersi in una ampia pineta per sboccare nell’incredibile ambiente di case operaie, alte e anonime, come per magia trasportate in cima ad una montagna alberata da una oscura periferia metropolitana.
A differenza di Ingurtosu le case sono ancora abitate, come testimoniano i panni stesi alle finestre e le numerose facce che vi si affacciano, ma le ampie vie sono deserte e la farmacia e l’ufficio postale sembrano i soli servizi esistenti, anche se numerose palazzine, vagamente ingentilite, testimoniano un passato di una qualche attività sociale.
Ci domandiamo a vicenda che faccia ancora qui tutta questa gente, ma non sappiamo risponderci e così imbocchiamo una delle strade che esce in discesa dal paese per attraversare ondate continue di verdi colline che rotolano verso il mare, senza traccia alcuna di umanità, se non alcuni stazzi di pastori.
Il sole è tornato ad illuminare il verde della macchia e il rosso e il grigio della roccia che spunta ed emerge dappertutto e così scopriamo che quei monti segmentati, che dalla spiaggia apparivano immani e minacciosi, sono anch’essi colline, dove però antiche eruzioni e poi il vento hanno fatto strane geometrie.
La strada è tutta curve e saliscendi ma sempre netta verso il basso, verso il mare che raggiungiamo di nuovo a Marina di Arbus.
Il ritorno in albergo è sulla stessa strada dell’andata, ma con il sole che tramonta e le prime oscurità che nascondono le brutte case e i piazzali di parcheggio e poi sono di nuovo le dune e la sabbia del rio Piscinas.
A cena ci concediamo un Vermentino e poi gustiamo il silenzio che è ancora assoluto.
Domenica, 5 settembre
Con un bel tempo e un forte maestrale partiamo da Piscinas, risalendo Ingurtosu e di nuovo sulla provinciale, questa volta a Sud.
Sacrifichiamo però il tempio di Antas e viriamo nella valle del rio Mannu, ancora verso il mare, che si scaglia con violenza contro la lunga spiaggia e a Buggerru scavalca con bianche ondate la banchina del porticciolo, oggi tutto turistico, ma una volta scalo per il carico dei minerali. Qua e là segni ancora evidenti dell’antica attività mineraria, compresi i grandi buchi sui fianchi delle montagne sovrastanti, ma ormai è tutto e solo turismo e questo vuol dire almeno il non abbandono.
Risaliamo con l’auto i tornanti sopra il paese, perché la costa è alta e frastagliata, piena di calette e piccole baie.
Una di queste è Cala Domestica, una piccola spiaggia chiusa tra alte pareti di roccia, sovrastata da una torre saracena.
Un’altra vicinissima caletta è collegata tramite una galleria, scavata in tempo di miniere, per favorire l’imbarco dei minerali. Il mare sembra subito profondo ma è impossibile verificarlo perché è quasi in burrasca. Provo a immaginare quei posti con acque limpide e tranquille.
La strada continua oltre, ma verso l’interno, perché doveva servire altre miniere e altri impianti; così l’asfalto finisce alle ultime rovine e continua una carrareccia scassata, prima in salita tra rocce e magri pascoli e poi a discendere verso strapiombi desolati. In fondo, come sempre, il muro turchino del mare e questa volta, a emergere come mostro marino, un grande scoglio bianco a pan di zucchero, l’ultima cosa che rimane visibile negli occhi, dopo aver liberato la vista, scendendo, delle palme, delle case dei minatori, della chiesa e delle grandi vasche metalliche di decantazione.
E’ Masua.
Sulla piccola spiaggia stretta tra faraglioni e tubi e ringhiere di ferro c’è un brulichio di bagnanti, al sole e al riparo dal forte vento.
Mezza giornata è già passata ed anche per fame ci allontaniamo dai colori marini per ritrovare rocce e pascoli, bruciati dagli incendi fin sotto le prime case di Iglesias.
La città è completamente deserta e con fatica troviamo un bar aperto. La Piazza del Municipio è animata da un ragazzino tutto solo, il cui scorrazzare in bicicletta non ci impedisce di ammirare la bella facciata romanico-gotica della Cattedrale. Ma quel silenzio ci sgomenta e un breve giro in macchina per le vie della città, lungo le mura e fino al balcone di Nostra Signora di
Buoncammino, ci basta e così proseguiamo fino a Carbonia, ma solo per un caffè, perché lo stile coloniale fascista è sproporzionato e pretenzioso.
Senza raccogliere le raccomandazioni delle guide per il Monte Sirai, puntiamo diritti all’isola di Sant’Antioco, ma una ricerca infruttuosa di un hotel di nostro gusto ci fa raggiungere subito Calasetta.
L’esosità di un albergo della costa ci fa scegliere un hotel in paese, un blocco squadrato a più piani, che sovrasta le piccole casette circostanti.
Soddisfatti della scelta, per il prezzo e la pulizia, e rilassati da un breve riposo, sfruttiamo le ultime ore di luce per ritornare a Sant’Antioco, ma l’anonimato delle case, la pochezza della parrocchiale, nonostante le catacombe e l’insignificanza della zona archeologica ci rimandano quasi subito indietro, avendo ormai come ultima speranza un buon ristorante.
E Pasqualino non ci delude: musciame di tonno, pesce spada affumicato, spaghetti ai frutti di mare, frittura di pesce, zuppa di cozze e vino locale, gradevolissimo.
Un caffè sulla piazza del paese, il frusciare del passeggio e i giochi dei bambini sono le premesse di un sonno ristoratore.
Lunedì, 6 settembre
Alle nove in punto siamo allineati con altre auto sul piccolo molo di Calasetta per imbarcarci per l’isola di San Pietro, che raggiungiamo in neanche mezz’ora.
Carloforte è subito affascinante per la piazza Carlo Emanuele a immediato ridosso dell’attracco, ombrosa di palme, con un frontale di palazzotti eleganti ma non pretenziosi e così è anche Corso Tagliafico e la Piazza della Repubblica, vera oasi di ombra e di pace, con gli unici rumori di voci e passi umani.
La gente è numerosa e riempie vie e strade, regolari nel loro intersecarsi, presa dalla frenesia, anche se non ossessiva, degli acquisti quotidiani, per poi diradarsi completamente nella parte alta della cittadina, dove il silenzio è assoluto, quasi accentuato dalla luce intensa del sole. Nessuna casa, anche modesta, è anonima, come in molti paesi della Sardegna, ma ostenta almeno un riquadro, una mensola, un balcone, una tinta, un qualche motivo che la caratterizza, rendendo mosso e piacevole tutto il paese, compresi alcuni elementi di assoluta originalità urbanistica, come la severa Casa del Proletariato.
Usciti da Carloforte la presenza umana si dirada, senza scomparire del tutto, rappresentata da una infinità di casette bianche, vecchie barakke ristrutturate, a contrasto con il verde intenso della bassa macchia e dei coltivi, almeno tutto intorno al paese.
A Cala Punta il mare torna a fare da padrone, anche se sono vicinissime le grandi e vecchie tonnare abbandonate e di fronte, oltre un braccio di acqua, sfumati nella caligine, torreggiano gli impianti industriali di Portovesme.
Per ritrovare solo natura attraversiamo in auto tutta l’isola verso occidente, con casette sempre più rarefatte per il prevalere del terreno roccioso e dei boschi, di pini soprattutto, fino alle grandi scogliere della Punta di Capo Rosso e di Capo Sandalo. La vista è magnifica, amplissima sul mare e sotto i nostri piedi solo scogli, isolotti e rocce a picco imbiancate di spuma. Un sentiero spiraleggia verso il basso e ci porta in una minuscola caletta, circondata da rocce granitiche lavorate dal vento, un tempo sicuramente piccolo imbarcadero, ma ora violentemente battuto dalle onde, talmente forti da impedire non tanto l’entrata in acqua quanto la risalita, pena scorticamenti e forse peggio.
Invece nella vicina Calafico le onde si stemperano in una profonda insenatura aperta tra alte pareti di roccia bianca, dominio del Falco della Regina, a cui è dedicato l’osservatorio della LIPU, impiantato nei pressi.
E’ tempo per me di una lunga nuotata e per Anna Maria di letture e riflessioni.
Il sole ancora alto mi sollecita nevroticamente la ricerca di altri lidi è così sbocchiamo nella spiaggia di la Bobba, più aperta delle precedenti e con un ampio arenile e per questo molto frequentata. Altro bagno per me, sole, sigaretta e gelato per Anna Maria.
A metà pomeriggio il traghetto riparte per Calasetta, con il sole ormai a traverso che illumina la costa prospiciente della Sardegna e fa il mare blu inchiostro.
Ancora pesce da Pasqualino: antipasto di musciame di tonno, bottarga, pesce spada affumicato e zuppa di pesce. Io mangio anche buona parte di quella di Anna Mariá e così alla fine il liquore di mirto è obbligatorio e anche il caffè e anche una coca-cola.
Martedì, 7 settembre
Era previsto per oggi un ritorno a San Pietro, per un giro in barca dell’isola, ma un cielo biancastro privo di sole ci consiglia di cambiare programma, temendo che la mancanza della luce diretta appiattisca i colori e i panorami e l’increspatura del mare favorisca il mal di mare.
Tutta terra dunque, a est, oltre l’istmo che collega Sant’Antioco alla madre isola, verso l’interno, San Giovanni Suérgiu, Giba, Santadi.
Ci attira la descrizione delle guide di un’unica selva compatta per quasi trenta chilometri ai piedi del Monte is Caràvius e Monte Arcosu e la presenza del cervo sardo. Il percorso lungo una ampia carrareccia ci fornisce un panorama corrispondente alle previsioni, per quanto riguarda la foresta, compatta, ad alto fusto, con diverse sfumature di verde e, cosa miracolosa, per niente toccata dagli incendi. La strada per quanto accidentata, è piacevole, perché percorre un fondo valle e quindi senza tornanti o serie di curve.
Nessuna traccia di presenze umane, se non rarissimi greggi di capre e un grande casale di allevatori, ma neanche di animali, tranne un grande rapace, in sosta momentanea presso la strada.
Verso la fine della grande foresta un cartello rimanda alla riserva naturale di Monte Arcosu, gestita dal WWF, ma dopo pochi chilometri un cartello annuncia la chiusura dell’oasi per censimento faunistico.
Pazienza, la rinuncia ci sembra per una buona causa!
Quando gli alberi scompaiono siamo già nella piana alluvionale di Cagliari, ma della città cogliamo solo le grandi e numerose serre e poi voltiamo verso sud per Sarroch e poi Pula.
Nora non è come Tharros, ma non per le rovine, altrettanto suggestive, anche qui direttamente sul mare, ma per un’afa che deprime ogni volontà e per una nuvolaglia che schiaccia i reperti. Inoltra manca una guida che sappia trasmetterci informazioni e passioni.
Fino a Chia non entra aria fresca neanche dai finestrini spalancati dell’auto ma entra invece una fugace visione di una striscia bianchissima dopo il grigioverde di una piana indefinibile, se pascolo o palude, che ci sollecita una rapida inversione della marcia, per la ricerca di un accesso a quella cosa misteriosa che poi è un ampio stagno disseccato di un chiarore accecante, pieno di gabbiani in riposo e che poi continua nella sabbia di una grandissima spiaggia, battuta dal vento e finalmente da un sole pieno e caldo, in cui la presenza umana è dispersa e quasi insignificante, compreso il baracchino del gelataio alimentato da un generatore scoppiettante, unico segno di un’epoca moderna o per lo meno contemporanea.
Restiamo il tempo di un gelato, anche intimiditi, a domandarci come ritornare qui senza dover usufruire degli orribili residence o dei grandi alberghi che stanno proliferando sulle colline vicine.
Con il sole il mare e la costa tornano splendidi, anche perché la strada diventa panoramica e gli insediamenti scompaiono, fino a quando dobbiamo abbandonare alla nostra sinistra gli alti profili di CapoTeulada, grigiocelesti rispetto al mare più scuro e siamo di nuovo nell’interno, di nuovo a Giba, San Giovanni Suérgiu e la nostra isola e la nostra Calasetta.
Abbiamo ancora un pò di tempo per gironzolare nella parte alta del paese, dove finisce il reticolo regolarissimo delle vie, dritte come schioppettate fino al porto, perché oltre c’è un digradare ed in esso le case sono poche e a grappolo, in raggruppamenti ribelli ad ogni pianificazione e poi c’è il sole che tramonta illuminando un altro pezzo di mare ed un mirador sotto la torre saracena.
La sera pizza, non solo perché ne siamo amanti, ma perché la terrazza della pizzeria, in alto sui tetti, sembra essere l’unico antidoto al caldo ancora pesante.
Mercoledì¸ 8 settembre
Salvatore ci aspetta per l’ora di pranzo a Cala Liberotto, quasi all’altro capo della Sardegna.
Tappa di trasferimento dunque, prima per vie secondarie, attraversando l’Iglesiente, toccando San Giovanni Suérgiu, Sirai, Villamassàrgia, Siliqua e Vallermosa.
Comincia il Campidano e già da prima il giallo era tornato a dominare, stoppie soprattutto, con radi alberi, prima falsopiano e poi tutta pianura.
La strada è dritta e poco trafficata, ma sicuramente cimitero di auto, rubate o incidentate, visto il numero incredibile di macchine bruciate, ai lati dell’asfalto.
Dopo Samassi imbocchiamo la Carlo Felice, stretta, piena d’incroci a raso, ma la velocità è quasi obbligatoria, stante le quattro corsie e così rapidamente siamo al bivio per Nuoro, ritrovando colline e pascoli ed un lago, l’Omodeo, completamente secco e poi anche gli incendi.
Ci lasciamo Nuoro sulla destra, invisibile su un colle boscato, oltre una valle profonda ed alla sua fine voltiamo verso la Baronia, per Loculi, Irgoli, Onifai, Orosei e infine Cala Liberotto, irriconoscibile rispetto a tanti anni fa, per la crescita tumultuosa di residence, alberghi, ville, market.
E’ giusto l’ora di pranzo e Salvatore si è pericolato in un brodo di pesce perfettamente riuscito e in una frittura innaffiata con Vermentino.
Nel pomeriggio, anche se il mare è sotto casa, accogliamo volentieri l’invito di un bagno alla spiaggia di Biderrosa, a Nord, con dietro lo stagno di Sa Curcùricá e una grande oasi naturale, ricca di pini, eucalipti e ginepri, accessibile solo con un passaggio a guado di un rio, con l’acqua al petto.
Questo la rende quasi inaccessibile e così ci gustiamo in totale solitudine il mare, ricco di onde e di spuma, che affrontiamo per esserne sistematicamente travolti.
Il tramonto ci coglie alle spalle, alto su una catena lontana di monti, una linea frastagliata sul cielo, che solo più tardi diventa rossissima.
A cena Salvatore replica con spaghetti alle cozze e bottarga e grigliata di vitella, cotta alla sarda, cioè alta e al sangue.
Il pecorino chiude per mettere a posto lo stomaco e prepararlo al liquore di mirto.
Giovedì, 9 settembre
Una mattinata non splendida, che scoraggia la spiaggia, ci fa risalire in macchina con Danila e Salvatore, che deve svolgere una pratica burocratica. Obiettivo dichiarato: paesaggi della Barbagia e così arranchiamo per strade strette, colline aspre, poco boscate, sassi e pascoli.
Le prime case di Orune compaiono all’improvviso, in alto, bianche e inaspettate, perché nulla sembra cambiare nel paesaggio e quindi niente sembra giustificare un paese. Le case squadrate, di mattoni, a due piani, occupano il crinale di un toppo, a guardare tutt’intorno una infinità di terre e di orizzonti, ma non ci fermiamo, dando per vera la versione scherzosa di Salvatore di un paese difficile e ostile, soprattutto verso i continentali.
Nessuna sosta neanche a Bitti e su altopiani raggiungiamo Benetutti, di fronte ad una piana e giù in basso fino alle terme di San Saturnino, la cui chiesetta medievale, di pietra rossa, si alza scenograficamente su un breve dosso sopraelevato sul piano.
E’ subito ritorno, solo una sosta in un caseificio per acquistare pecorino, ma per tutta altra strada, compresa la vecchia provinciale di Nuoro, entrando anche nel capoluogo, per essere risucchiati da un traffico caotico tra alti palazzi moderni, rivivendo per mezz’ora una piena dimensione metropolitana.
Ne usciamo come resuscitati per filare via fino a Cala Liberotto via Galtelli.
Un tempo afoso e pesante scoraggia ancora la spiaggia, favorendo dopo pranzo chiacchiere, rimuginamenti e imbambolamenti.
In una sorta di reazione io e Salvatore sgroppiamo in bicicletta fino alla chiesa di Santa Maria di Mare, allo sbocco in mare del fiume Cedrino, prima di Marina di Orosei.
La chiesetta è chiusa ma il piccolo e ricco giardino che la circonda è gradevolissimo e da un muricciolo lo sguardo si apre sulle dune del mare, che sembrano sbarrare alle acque dolci l’incontro con quelle salate. C’è pace e silenzio.
Ma è anche l’ultimo giorno in Sardegna, perciò tutti a Orosei per i regali e i souvenir, che sono quasi tutti alimentari: pane carasau, ricotta sarda, perette, vini bianchi, mirto, filu u ferru.
La giornata va conclusa con una grande mangiata alla sarda e per questo Salvatore ha scelto il ristorante Su Gologone, vicino a Dorgali.
Vi arriviamo di notte senza poter percepire niente del paesaggio né degli abitati e neanche della grande e famosa sorgente lì vicino.
Ci consoliamo con il ristorante, grande, pieno di gente, a più stanze e a più piani, arredato con gusto e mobili locali e con i cibi, tutti barbaricini, quindi solo terricoli, paste, carni soprattutto, fritta e grigliata e l’immancabile pane carasau. I dolci arrivano quando non c’è più posto per loro e la mia squisita sebada rimane per metà nel piatto.
Si parla di Sardegna di ieri e di oggi tra Salvatore e altri due amici nuoresi, Mariano e Giulia, con noi a cena allo stesso tavolo ed è Mariano, vero torrente umano, a sollecitare all’infinito chiacchiere e bevute, fin oltre mezzanotte, per continuare poi al bar, in un gioco di offerte e riofferte, in cui io e Anna Maria veniamo sconfitti immediatamente ed è sempre Mariano a proporre altre tappe, un altro bar ed anche casa sua a Nuoro, ma alcune luci in alto ci fanno dirottare verso una festa, anzi novena, al Santuario di Nostra Signora di Monserrato.
Varcato in auto il grande cancello del recinto l’atmosfera cambia di colpo. Una luce intensa e diffusa illumina a giorno il grande cortile delimitato dalle cumbessias, pieno di gente ancora numerosa nonostante l’ora tarda, ma né grida né vociare, perché tutto è dominato dalla musica espulsa dagli altoparlanti e perché i giovani sono tutti a ballare, in silenzio, in un grande cerchio composto da linee di uomini e donne, anche solo uomini o sole donne, a due, a tre o a quattro o più, a stringere e allargare il cerchio, con piccoli saltelli quasi sul posto, leggeri, sincronizzati, con sempre qualche gruppo a rompere il movimento concentrico, penetrando con decisione fino al centro, per portarvi nuovi movimenti delle gambe e poi allontanarsi velocemente, avendo ormai come affermata la propria autorità.
E’ come un rituale, praticato tutto da giovani e molti dei maschi ostentano una specie di divisa, fatta di bleu-jeans di vellutino blu, maglietta nera e scarponcini di cuoio.
Siamo però alla fine delle danze e tutti i giovani maschi li ritroviamo alla mescita della festa a bere e a giocare a morra, questa volta non più in silenzio, ma a far rintronare suoni secchi, concitati, in totale continuità nella quadriglia, perché cambiano velocemente le coppie avversarie e i movimenti delle mani e degli occhi e dei visi tesissimi sono carichi di violenza e sembra quasi un miracolo che non esploda.
La birra scorre a fiumi ed il mio bicchiere è riempito continuamente dai miei amici e anche dagli amici di Mariano, che fanno grappolo intorno a noi, per sapere delle nostre città, ma soprattutto per parlarci della novena, della morra, del santuario, della Barbagia.
Se non fosse per la partenza dell’indomani sarebbe bello fare l’alba e bere e parlare, perché ancora una volta, dopo Tharros, mi sento veramente bene, perché mi sento pienamente in Sardegna.
Alle tre Giulia riesca a trascinare via Mariano e noi con lui e salutati i nuoresi, mezzi sbronzi, in un chiacchiericcio scoordinato, guadagniamo dopo un’ora Cala Liberotto.
Venerdì, 10 settembre
Per il ritorno nel continente ci siamo concessi il Guizzo, più caro ma velocissimo, perché in sole tre ore e mezzo percorre la tratta Olbia Civitavecchia, passeggeri e auto.
Il mare è calmo così sembra di stare in aereo, si avverte solo un impercettibile movimento che mi concilia due ore del sonno perso la notte precedente e poi c’è il film con Paolo Villaggio e i ragazzini di Speriamo che io me la cavo.
Alle cinque del pomeriggio siamo a Perugia e i chilometri percorsi sono 2.110.
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