
Domenica, 20 settembre
L’aeroporto di Casablanca è pretenzioso nella sala con la fontana zampillante, i ritratti del re e degli eredi al trono e l’orologio sul soffitto, con un acuminatissimo cono che si protende minaccioso verso il basso.
In fila per le pratiche del passaporto, osservo la scrupolosità con cui un inserviente sta pulendo i vetri divisori, fino a renderli invisibili, mentre altri ripassano con ossessività il pavimento, facendo scomparire mozziconi e cartacce.
Le Land Rover dell’agenzia Phèbus sembrano quasi nuove e la città si presenta subito con una lunga serie di villette con giardino e dei molti palazzi e delle case colgo prevalentemente il colore bianco che domina incontrastato, accentuato dalle macchie verdi delle piante, dei cespugli, dei rampicanti. Solo vicino alla moschea di Hassan II, un grande cantiere che si rivela il secondo edificio sacro dell’Islam dopo la Mecca, le case mostrano un colore meno acceso, incupito da terrazze rigurgitanti di panni stesi e svolazzanti, di figure umane come segregate, pronte a straripare fuori, nei vicoli polverosi.
Ma è solo una visione di un attimo e si esce veloci lungo una litoranea che costeggia l’oceano invisibile per i capannoni e gli edifici della periferia industriale. Questa finisce per cedere il passo a paesi e case lungo la strada e l’Atlantico continua a rimanere come lontano e anche quando una sosta me lo presenta in una baia di una cittadina balneare, la mia curiosità è presa dal bighellonare della gente e dai capannelli di un pomeriggio festivo.
Più tardi sarà il crepuscolo, incupito da una nuvolaglia densa e altissima, a nasconderlo ancora di più mentre la costa sembra come livellata dal vento, priva d’emergenze naturali e anche le case, masserie sparse tra i campi sassosi, sono basse, bianche, a nascondere abitanti, bestie, masserizie. Gli unici alberi sono eucalipti e le vacche e le pecore sembrano curve a mangiare sassi o sterpi, perché non è percettibile un solo filo d’erba.
L’ingresso a Rabat avviene in pieno buio e forse per questo la città appare anonima, quasi modesta, non come una capitale e il lungo giro per la ricerca dell’Hotel non mostra né un traffico congestionato né una metropoli tentacolare.
Me lo conferma la passeggiata a piedi prima e dopo la cena, in una città già addormentata, tranne nei caffè, dove gli avventori sono uomini e donne, tutti vestiti all’occidentale, anche un giovane con il codino e dove un fortissimo e inebriante odore di menta mi ricorda dove sono. E’ il primo tè del Marocco.
Dalla finestra dell’albergo il minareto illuminato della moschea es-Sounna si staglia contro la notte.
Lunedì 21 settembre
Mi sveglia all’alba da un sonno profondissimo il muezzin e le altre ore sono di un piacevole dormiveglia.
La sala per la colazione ospita anche un gruppo d’uomini che sembrano d’affari, raccolti intorno ad un tavolo, tutti in completo grigio con la cravatta e alcuni con un caffetano leggero e ricamato.
Il vicinissimo museo archeologico è una gradevolissima sorpresa, perché vi entriamo per caso o per sbaglio.
E’ come un’unica sala, un peristilio al livello dell’ingresso con al centro una bellissima statua di marmo di un principe incoronato e bacheche intorno con materiale preistorico e al piano superiore un soppalco accessibile da una doppia rampa con pezzi romani, berberi e islamici. Ai lati un patio ed un giardino, quali fonti di luce e con lapidi, stele, anche bilingui, romane e arabe. Ma la vera sorpresa è la stanza ovale, aperta quasi con complicità da un custode, ricca soprattutto di grandi bronzi antichi, anche se i più belli sono in prestito all’Expo di Siviglia e di piccoli bronzi, (una Venere pudica) e poi fregi, borchie, lampade, gioielli, rubinetti, condutture, strumenti di lavoro (piombi da muratore), di misura, di chirurgia, tutti preislamici.
Il percorso verso la Medina, lungo grandi viali, lambendo la stazione centrale, le poste e la banca nazionale, mi conferma l’immagine, già notturna, di una città relativamente tranquilla, contenuta nella monumentalità e nel traffico.
Così è per la Medina, quasi sonnacchiosa, almeno nella via Mohammed V ed el Alou e poi per la Kasba degli Oudaia, biancheggiante di calce e di silenzio, come il sottostante cimitero, in riva all’oceano, fino al Café Maure, con la terrazza stretta tra i lussureggianti giardini andalusi e la scogliera sul fiume che separa Rabat da Salè, dove il calore del sole, temperato dai pergolati, concilia relax ed indolenza. Il tè alla menta è d’obbligo ed anche “le corna di gazzella”.
Gli accompagnatori che ci hanno fatto da guide e che hanno aspettato, dopo la lauta mancia, dietro ogni angolo e ogni porta, per soddisfare nuove richieste, ci accompagnano ad un ristorante dopo un lungo girovagare nella Medina ormai deserta, in un bel patio a più piani, soffuso di luce, stracolmo di tedeschi, francesi, spagnoli, solo turisti insomma, ma dove gustiamo un ottimo couscous ed un’altrettanto buona tajine.
Nel primo pomeriggio si parte per Meknès in tempo per incontrare, lungo la carrozzabile, un omerico ritorno di centinaia d’uomini e donne e ragazzi, da e per Rabat, quasi tutti a piedi, da luoghi di lavoro per me invisibili e inimmaginabili verso case e famiglie altrettanto invisibili.
La strada attraversa una landa piatta, una meseta di stoppie giallastre, che poi si arricchisce di boschi d’eucalipti e di querce da sughero e poi di viti, coltivate bassissime, fino ad accogliere oliveti, ma già la terra si movimenta con alcune colline, limitate da valloni completamente brulli, senza vegetazione, essendo l’acqua che li ha creati come svanita. Chiedo di fermare per comprare strani sacchetti ostentati da decine d’offerenti ai bordi della strada e un contadino magrissimo e cencioso mi vende delle bacche rossicce, quasi insapori, e mi tende anche una tartaruga appesa ad uno spago.
Arriviamo con la prima oscurità a Meknès, entrando dalla monumentale Bab el Khémis, percependo pezzi di muraglia e la folla ai bordi della Medina prima di risalire alla città nuova, sulla collina prospiciente quella antica.
Ceniamo senza voglia in un ristorante per turisti, senza altri clienti, accompagnati da una guida ufficiale autopresentatasi all’Hotel, con i nostri autisti in evidente imbarazzo per il locale ed il cibo mediocre.
Martedì 22 settembre
La città è sotto una nuvolaglia cupa che manda anche alcune gocce, il Figaro mi dà la notizia della vittoria strettissima dei si al referendum francese e tra noi si apre il dibattito se servirsi o no di una guida. I nostri autisti non conoscono la città né sono in grado di consigliare un itinerario ed il loro imbarazzo legittima una piccola folla di giovani a circondare le Land Rover per offrire servigi e prestazioni. Vince il più tenace con il quale, oltrepassata Bab Mansour, penetriamo nella città imperiale per visitare padiglioni, immensi granai, enormi navate, ai limiti di grandi piazze e giardini, a testimoniare una città ed un progetto faraonico e megalomane, al limite della paranoia. Anche il mausoleo del sovrano artefice della realizzazione della città riflette questo spirito, ma è anche una moschea ed è l’unica del Marocco nella quale i non mussulmani possono entrare.
Fuori della città imperiale, quasi sollevato nello spirito, posso gustare lo spettacolo delle grandi mura color ocra, illuminate dal sole di nuovo pienamente luminoso.
E’ un sole intensissimo quello che a mezzogiorno infuoca la piazza Lahdim, di fronte a Bab Mansour e ci sollecita a penetrare nella penombra della Medina.
E’ subito un intrico di botteghe e di merci ma tutto in penombra per il dedalo dei vicoli e la copertura di canne e tendoni in alto, fino ad un bivio dove il lavoro di un falegname e l’ingresso di una piccola moschea obbligano una sosta. La guida del Touring è inutile ed il nostro disorientamento per dove continuare deve essere evidente, perché un giovane con una barbetta ed una cupoletta colorata in testa non ne approfitti per adottarci, grazie alle ripetute dichiarazioni di non essere una guida a pagamento e al suo perfetto francese.
Così la scena cambia di colpo, non più botteghe con merce dozzinale o per turisti ma un intero quartiere artigiano, una babele di ferro, fuoco, legno, sale, carbone, stoffa, cuoio, nelle mani di decine e decine d’uomini, tra cui moltissimi bambini, chini a battere, piegare, spezzare, cucire, incastrare, saldare, segare, verniciare, con mani e piedi in un aiuto reciproco, in botteghe, box, capanne, magazzini, tende o sulla strada, sotto un ombrellone o un telone, tra rigagnoli maleodoranti e la polvere e i rifiuti e gli escrementi dei somari, cavalli e muli, unici mezzi di trasporto abilitati ed i relativi odori, in alcuni punti sovrastati da quello intensissimo del cedro.
La visita si ferma ogni tanto in alcuni caravanserragli ripieni di tappeti o in rivendite dell’usato o in botteghe di ferro battuto e d’intarsi d’argento, ma siamo restii a comprare e diffidenti, e solo davanti alle spezie, ammaliati dagli odori e dai colori, apriamo le borse per l’henné, il cumino, l’ambra, la kurkuma.
Il pranzo è sui tavolini di un caffè sulla piazza Lahdim, a base di frutta annaffiata con tè alla menta.
Si riparte con le Rover alle tre del pomeriggio e dopo la solita meseta fuori della città il panorama si addolcisce per la comparsa di oliveti e di qualche boschetto, sui pendi di colline e valloncelli.
La doppia gobba bianca di case di Moulay Idriss mi rende il panorama come familiare, ma appena arrivati a Volubilis non mi sento più in Marocco, ma al centro del mondo, perché le colonne corinzie, i resti della Basilica e del Campidoglio, le terme, gli archi di trionfo, i mosaici e l’impianto delle case mi rimandano un’immagine omogenea e affine a tante altre, viste non solo in Italia, ma in tutto il Mediterraneo. E’ come se prevalesse un senso d’identità e d’appartenenza legato ad un impero, quello romano, ma anche perché il luogo è magico per la monumentalità, la collocazione e per la luce a traverso del sole.
Ne esco a malincuore ma immediatamente dopo, da un belvedere naturale, con sotto un piccolo cimitero immerso tra gli olivi, mi emoziona la città bianca di Moulay Idriss, abbarbicata su due colli con in mezzo la moschea con i tetti verdi a capanna e il minareto e grandi uccelli in fila che, in alto, fanno il loro ritorno quotidiano.
La poca luce che permette il tramonto, andando verso Fès, mi fa cogliere un territorio amplissimo, attraversato da una fuga di basse colline in successione come onde del mare, ocra per le stoppie, senza alberi nè case, con il serpente grigio della strada, inframmezzato dalle luci variopinte dei camion e dai fari gialli delle auto.
E’ già buio quando arriviamo a Fès e gli autisti, o per sbaglio o per cercare una soluzione migliore, puntano ad un Hotel della città, anziché a quello prenotato, a circa otto chilometri. Veniamo scortati da ragazzi e da adulti in motorino che si offrono come guide, che ci hanno contattato sin dall’accesso alla circonvallazione della città. Sempre in loro compagnia abbandoniamo Fès per Sidi Arazem, dove l’hotel è vicinissimo alla sorgente termale.
A cena tajine e musica dal vivo.
Mercoledì, 23 settembre
Uno degli uomini, che dal motorino mi aveva chiesto la sera precedente chi fossimo, oggi è la nostra guida, in galabja bianco avorio e ricamata, babbucce e al collo un medaglione che attesta la sua ufficialità.
Da un belvedere sulla moderna strada di circonvallazione osservo Fès compatta in una valle, come un melograno spaccato con chicchi tutti bianchi. Non si colgono emergenze nè di minareti nè di palazzi perché quello che spicca è il tessuto omogeneo della città, ancora stretto nelle mura ed è in esso che penetriamo dopo una breve visita alle belle porte dorate del palazzo reale a Fès el-Jédid. L’accesso alla Medina è la bicolore Bab Boujeloud ed il mondo cambia di colpo perché sparisce la violenza del sole, coperto dai muri delle case e filtrato dalle coperture sui vicoli e con esso le automobili ed ogni semovente, sostituiti nelle loro prestazioni da asini e muli, unici mezzi di trasporto possibili in vicoli stretti ed in saliscendi ed a loro che va la massima attenzione per non esserne spinti e travolti, anche se è la gente, in quantità inimmaginabile ed in un perenne e veloce movimento, che sembra garantire il mio equilibrio, non certo le mie gambe. Il richiamo per questa folla sono senz’altro le merci, di ogni tipo e genere, esposte sulla via ma anche nelle botteghe, veri antri traboccanti di oggetti o prodotte direttamente, in un lavorio artigiano ancora totalmente manuale, dove gli strumenti rendono più raffinato e completo il lavoro della mano, ma non sembrano assolutamente in grado di sostituirla.
Basta allontanarsi dalla direttrice principale e imboccare vicoli laterali, per trovare silenzi e penombre assolute, in antichi caravanserragli che sembrano mantenere ancora l’odore fortissimo degli escrementi animali o in forni primitivi dove il pane è caldo e soffice.
Il richiamo per la folla sono anche le moschee ed è intorno alla più grande e alla più antica, quella di el-Qaraouiyyin, che si stringe la gente. Posso solo gettare sguardi attraverso le porte aperte e vedere sale e cortili, colonne e lampadari solo tramite le parole della guida, quasi gridate tra chi entra e chi esce e solo questa moltitudine che rende credibile la fama ed il prestigio di questa moschea. La vicina medersa el-Attarin potrebbe ripagarmi ma in restauro, anche se il bel cortile è una festa di intarsi e di stucchi illuminati dal sole.
L’Uadi Fès è come un confine maleodorante tra i commerci e le preghiere ed il lavoro umano, che convive con sporcizie e miasmi, specialmente se di tintori. L’abbraccio della Medina comincia ad essere soffocante e si concorda una tregua, uscendo dalla città dopo aver comprato frutta per il pranzo.
Il ritorno a Sidi Arazem sembra il più logico, non tanto per l’Hotel quanto per il parco che lo circonda, creato intorno alla sorgente dell’acqua minerale. Ma anche qui la gente convenuta è tanta ed occupa con fagotti e vivande, stuoie e cuscini tutti i posti possibili all’ombra. Perché clienti dell’albergo possiamo godere del prato, tenuto sgombro da altri esseri umani da un cerbero con fischietto.
Siamo di nuovo a Fès per le quattro ed entriamo da Bab Jamai per raggiungere il quartiere dei conciatori. E’ per me come sfogliare una rivista perché le immagini delle vasche della concia e dei loro colori sono foto già viste, anche se gli odori fortissimi e penetranti e le riflessioni sulle condizioni di chi vi lavora mi prendono la testa. Ne esco meditabondo e perplesso ed il somaro che in strada crolla sotto il peso di un carico inaudito di pelli senza reagire alle feroci bastonature del padrone mi rende tutto ancora più difficile da capire e da accettare.
Il resto del pomeriggio dedicato a negozi e rivendite, tappe obbligate per ogni guida, ed per me l’occasione per fermarmi e guardarmi intorno con calma, fino ad essere ospitato su bassi sgabelli da commercianti per scambiare chiacchiere ed ironie.
Le ombre della sera stanno arrivando ma facciamo in tempo a gustare, una volta usciti dalle mura, un incredibile tramonto dalla terrazza del lussuoso hotel Mérinides, con Fès in basso picchiettata di luci. Il sapore del tè alla menta mi riempie la bocca ed anche gli occhi.
La cena è in un ristorante della Medina ed è anche un’occasione per rientrarvi di notte, in un’oscurità quasi assoluta, scoprendo che permane un incessante andirivieni, anche se appare diverso da quello del giorno, più rilassato e giocoso, forse per la presenza prevalente di bambini.
Giovedì, 24 settembre
Sveglia prestissimo per una lunga tappa di trasferimento verso il deserto, attraversando il Medio Atlante.
E’ appena l’alba ma già arriva gente per l’acqua minerale ed un gufo sul tetto dell’albergo domina la scena.
Prima tappa Ifrane con chalet e ville europee, dove lo è anche il sapore dei croissant e delle baguette. Il tè è sempre alla menta.
Subito dopo vedo il primo bosco di cedri della mia vita, inimmaginabile per noi, dove questi alberi sono solitari giganti in giardini e in parchi pubblici. C’è anche il cedro Gourand, alto decine di volte le nostre Land Rover e con una base di dieci metri, abitato da scimmie in quel momento invisibili.
Il panorama cambia continuamente, alternando lande desertiche e predesertiche a zone coltivate, dove la vita umana è testimoniata da masserie sparse e da poveri centri abitati, fitti di gente. Sono numerosi anche i nomadi ed in una tenda di essi facciamo una sosta, sotto le sollecitazioni di Aziz, il nostro autista berbero, per apprezzarvi una piacevole frescura ed il solito tè.
Il viaggio è lungo e scorre su dritte fettucce d’asfalto, traversando passi montani e gole fino a Midelt. Sosta per acquisti di cibarie per la cena e poi ancora attraverso le gole dello Ziz fino a er -Rachidia, dopo aver costeggiato le rive di un lago artificiale. Tutto è moderno anche se siamo già nel deserto, nonostante la sorgente blu di Mescki, dove una grande vasca di acqua limpidissima riflette le palme.
Ancora acqua, subito dopo, a sgorgare da un pozzo artesiano, in mezzo a una landa pietrosa, senza produrre, apparentemente, vita vegetale, se non uno strato calcareo, rugoso e reso lucente dal sole.
Su questo panorama, che sembra proporre solamente un’ampia ed esclusiva orizzontalità, all’improvviso si apre la grande gola dello Ziz, scavata nella roccia e colma del verde di un immenso palmeto. Una volta penetrati in essa la strada costeggia un’infinità di case e paesi, a beneficiare dell’acqua e delle colture, molti fortificati, tutti del colore ocra della terra.
A Erfoud rapidissima sosta per un ristoro e la benzina perché la fine della giornata è incombente e ci aspettano ancora molti chilometri di pista, senza asfalto.
Un sole opacato da nuvole basse ci accompagna sulla destra mentre percorriamo sobbalzando la pista fino ad intravedere l’erg Chebbi, ma è con il buio che raggiungiamo le prime dune, per scoprire alla luce dei fari una piccola conca riparata per il campo.
Mentre montiamo le tende ci accompagna il ruggito del motore delle Land Rover insabbiate per l’imperizia degli autisti e, come per incanto, siamo circondati da ragazzi che, attirati dalle luci e dai rumori, sono arrivati a decine da chissà dove su biciclette e motorini, per vendere e contrattare.
Venerdì, 25 settembre
Partiamo per Rissani, avendo deciso di dedicare alle dune dell’Erg Chebbi il pomeriggio, io ed altri a dorso di cammello, contrattati per 200 dirham ciascuno, di cui 100 anticipati.
Utilizziamo la pista e con essa entriamo in sordina nella cittadina, per seguire poi strade polverose che attraversano il grande palmeto, che mi sembra diradato dalla siccità.
La piazza principale è un incrocio di arterie vicino alla Kasba. Ci si dice che vi sono state girate scene del Tè nel deserto e pur senza riconoscere con esattezza luoghi e scorci avverto subito l’atmosfera rarefatta e disperante del film. La kasba è un susseguirsi di grandi tunnel di fango quasi totalmente al buio, dove si procede a fatica, guidati dal riquadro di luce dove termina la galleria per iniziare una nuova, circondati da bambini e ragazzi che sussurrano, chiedono, salutano, uscendo ed entrando da aperture che comunicano con case appena percepibili e quindi quasi inimmaginabili.
Accetto volentieri la sosta presso il venditore di tappeti, per cogliere connotati di umanità e capire il senso di quell’insediamento ai margini del deserto. E’ il solito ampio locale a più piani aperto al centro per la luce e l’aria, rivestito di tappeti, dove il padrone, giovane ed elegante nella gandoura, spiega con calma perché e come cinque generazioni della sua famiglia hanno venduto quei prodotti, che definisce come espressioni umane e artistiche delle donne berbere, non semplici oggetti di arredamento. Non lo fa solo per spiegare e far capire, come sostiene, ma anche e soprattutto per vendere, ma il gioco prevede anche questo rituale. Tutti lo sappiamo e lui per primo e per questo non manca neanche il tè.
Esco come rilassato e fuori della Kasba io e Anna Maria gironzoliamo per il souk, a quest’ora deserto, ma non di giovani venditori ambulanti che sono costretti a prendere atto della nostra ritrosia all’acquisto e a farcene addirittura i complimenti.
Il ritorno ad Erfoud è sull’asfalto ed il pranzo è a base di scatolame sulla riva dell’uadi Ziz, vicino a pile di mattoni di fango ad essiccare al sole e a gruppi di donne che separano il grano dalla pula in grandi cesti tramite l’acqua.
Il tempo sta cambiando ed il sole ormai oscurato da un polverio diffuso, agitato da un forte vento. Il ritorno al campo affrettato dalla tempesta che diminuisce visibilità e toglie gradevolezza a gesti e movimenti perché accompagnato da un caldo opprimente ed appiccicoso. Molte tende sono come accovacciate, quelle in piedi sono piene di sabbia compresi sacchi a pelo e bagagli ed il vento continua forte ed imperterrito perciò la decisione di smontare è unanime e viene eseguita rapidamente e in silenzio. I cammelli arrivano puntuali ma ripartono senza di noi e con i nostri dirhan anticipati.
Anche se lontana la sorgente blu di Meski sembra una buona meta e vi arriviamo al buio, ma siamo senza vento, sotto le palme ed il bagno nella grande vasca illuminata e freddissima è tonificante.
Sabato, 26 settembre
Ancora un bagno la mattina e poi er-Rachidia per la colazione e acquisti di cibo e acqua.
Ripartiti, allo svalicare di un colle, si apre una vista amplissima su una piana desertica e si vede lontana, ma inconfondibile, anche per il contrasto con il colore ocra dominante, l’oasi del Rheriss. Tra le palme l’abitato di Goulmina in gran parte moderno ma con la Kasba, ancora reticolo di vicoli oscuri, serrati tra le alte case di fango, e con decine di bambini che escono da tutte le parti. Un nutrito gruppo di loro ci accompagna, vocianti e imploranti, per tutto il percorso, anche tra i sentieri del palmeto, annunciandoci alle donne, chine a lavare i panni nel canale o a chiacchierare sulla porta delle case. Tornati sull’asfalto il sole è implacabile ma la tettoia di un caffè ci offre riparo e tavolini per consumare il solito lauto pasto di scatolame, pagando le bevande.
Il viaggio continua costeggiando sulla destra le montagne dell’Alto Atlante che si profilano su un cielo intensamente azzurro e lungo fettucce di asfalto diritte come schioppettate.
E’ nel tardo pomeriggio, dopo una breve sosta ad una fonte di acqua minerale per riempire taniche e bottiglie vuote di Sidi Arazem, che avviciniamo le montagne ma prima incontriamo con sorpresa un’immensa oasi, lussureggiante di palme e colture, sovrastata da un’imponente kasba e con la luce del tramonto a risaltare al massimo i verdi e gli ocra. E’ Tineghir e subito dopo le gole del Todgha, un canyon con altissime pareti a picco. Sotto di loro, totalmente sovrastato, il piccolo Hotel Yasmine ci offre un’ottima harira e couscous, stanze di dubbia igienicità, un dopocena con canti e musica, animato da un padrone amante del vino e dell’hascisc.
Domenica, 27 settembre
Finalmente giustifichiamo la scelta dei fuoristrada, essendo il percorso fino ad ora perfettamente agibile da pulmini o normali automobili, decidendo, non tutti, di risalire le gole del Dadès e di ridiscendere in quelle del Todgha. Tempo previsto: circa otto ore tutte di pista di montagna.
Per alcuni chilometri seguiamo il corso del fiume che si è scavato il letto nella roccia, incontrando abitati tutti sovrastati da kasbe di fango rossiccio. Ogni piccolo appezzamento disponibile è coltivato, sfruttando al massimo l’acqua abbondante ed il sole, almeno nella bella stagione. I tetti a terrazza delle case, semplici cubi di mattoni cotti al sole e rivestiti di fango e paglia, non sembrano compatibili con intemperie e nevicate, ma l’autista conferma la persistenza di lunghi periodi di freddo e neve.
Ad un certo punto la strada abbandona il fiume per risalire vertiginosamente le gole e da quel momento si percorrono ampi altopiani, in alternanza tra di loro, separati da creste e cordigliere, con una presenza umana costante e imprevedibile, giustificata da numerosi corsi d’acqua che aprono ogni tanto piccole valli verdi e ricche di colture. Le capre e le pecore sono numerose, anche se i pascoli sembrano ricchi solo di sassi e piccole pastorelle ci salutano a lungo, quando non riescono a raggiungerci ed avere regali ed elemosine.
La strada è scassatissima e sono ore e ore di sobbalzi ma siamo nel cuore di un massiccio montuoso immenso e maestoso anche se privo di cuspidi ed emergenze alpine e, per l’altitudine di oltre duemila metri, senza il contorno di boschi e foreste.
Sono enormi protuberanze, allineate a fare da cornice a vastissimi altopiani, in cui si aprono antichi e profondissimi canyon, dove l’acqua è scomparsa o invisibile.
L’ultimo che discendiamo è quello del Todgha e alle ultime luci del giorno raggiungiamo di nuovo l’Hotel Yasmine mentre un lungo applauso si accende nella Land Rover.
Cena e pernottamento all’Hotel Saghro a Tineghir, di altro livello dal Yasmine ed anche con una bella vista dell’oasi, tutta immersa nel buio per la mancanza dell’elettricità, mentre la piscina dell’albergo riluce sotto i riflettori.
Lunedì, 28 settembre
Mattinata libera, con il gruppo che si disperde nel palmeto o nelle gole del Dadés o in albergo, al sole o in piscina. Un bagno freddissimo mi concilia la lettura di guide e articoli sul Marocco.
Si parte a mezzogiorno e la bucatura di una gomma a Boulmalne giustifica una sosta per un pessimo pranzo in una trattoria locale. Quasi in fuga imbocchiamo la valle del Dadès, amplissima, ricca di kasbe e di rose.
A Skoura lunga sosta per visitare i pinnacoli di fango lavorato dei numerosi castelli ormai abbandonati e cadenti e un giovane trovato sul posto dal nostro autista ci guida in un lungo percorso nel palmeto fino alla kasba di Amerhidil, lungo la riva di un uadi, enorme, quasi intatta al suo esterno nelle torri e nelle mura, cadente e disperata al suo interno, i cui veri padroni sono i ragazzi di una banda giovanile, la cui neutralità nei nostri confronti è garantita solo dalla nostra guida.
La valle del Dadès è sempre più ampia, con le montagne dell’Alto Atlante lontane sullo sfondo e prima di Ouarzazate le palme, le kasbe e l’orizzonte si incendiano di un luminosissimo tramonto, accentuato da una nuvolaglia nera che fa da cornice al sole.
Arriviamo in città con il buio, ma io con molta luce dentro e la cena, su una terrazza di fronte alla kasba di Taourirt, a base di harira e brochette, conferma l’allegria.
Martedì, 29 settembre
Lunga tappa in auto, disertata da molti, verso il deserto, lungo la valle del Draa, ma prima visitiamo la Kasba di Taourirt, antica residenza del Glaoui, pascià di Marrakech durante il protettorato francese, nemico acerrimo della dinastia degli Alauiti, attuali regnanti in Marocco. Oltre gli appartamenti, cui è stata garantita dallo Stato manutenzione e restauro, sono interessanti le parole della guida su usi e costumi delle donne e degli uomini arabi e berberi e sull’antico padrone della Kasba, presentato senza reticenze e passioni. E’ forse la prima volta che pezzi di storia di questo paese mi sono fatti capire e in non molti minuti.
Oltre Ourazazate le Land Rover superano un passo, tra gole profonde e aride, solo rocce e qualche capra e pastorelli che chiedono pane o che vendono iguane. E’ la prima volta che ci viene chiesto pane, non stilò nè bon bon nè dirham, ma pane, solo e unicamente pane. Il Draa è sotto di noi, in una valle amplissima con al centro un massiccio montuoso pieno di guglie, sotto un cielo luminosissimo, ma io continuo a pensare al pane.
I sassi e gli sterpi continuano ancora per un lungo tratto della pianura fino all’abitato di Agdz, dove comincia il palmeto e dove incrociamo una lunga fila di carri armati delle Forze Armate Reali, con grandi ruote gommate per la sabbia, di ritorno dal fronte, dice l’autista, con il Polisario, perché è finita la guerra. Non riesco a capire bene perché e come, ma per evitare equivoci ed incomprensioni non faccio domande.
Lasciamo la strada principale per raggiungere non molto lontano lo ksar di Tamnougalt, altro castello del Glaoui, in alto su un colle, oggi residenza di corvi e cornacchie, ma ancora imponente e suggestivo, nonostante le rovine.
Il capo del villaggio ci omaggia al nostro ritorno ai fuoristrada di una stretta di mano e di una manciata di datteri.
La strada è poi tutta un susseguirsi di abitati, frequentatissimi, tutti fortificati o protetti da ksar, ai bordi o in mezzo al palmeto, che prosegue quasi ininterrotto lungo il corso del fiume. A volte ci sono aperture su panorami che offrono contemporaneamente deserto roccioso, acqua, case, ksar, coltivi e piante, con tutti i loro rispettivi colori.
Anziché rarefarsi, man mano che ci inoltriamo nel deserto, i centri abitati si intensificano, fino a Zagora, con grandi strade e negozi e botteghe. Mi faccio fotografare con Anna Maria accanto a un cartello che segnala la distanza di 52 giorni di cammello per Timbuctu.
Si continua ancora, in un caldo pesante, e quasi con disperazione, per arrivare a Tamgrout, uno degli ultimi villaggi, prima del pieno deserto del Sahara.
Mangiamo sotto le palme gli ultimi residui di scatolame, in pace per la guardia aggressiva degli autisti, ma poi circondati da decine di ragazzini che chiedono, implorano, sorridono, salutano, ci accarezzano. Anche il loro interesse nei confronti del sacchetto dei rifiuti che abbiamo lasciato è grande.
La cooperativa locale offre ceramiche e vasellame di terracotta dalla forma e dai disegni primitivi prodotte in una fabbrica vicina, con tecniche e forni di cottura primordiali.
La guida locale, energica e vitale pur essendo menomato dalla polio, ci conduce nei vicoli della Kasba ma la meta è la scuola coranica del XVII secolo.
Entrati in un giardino ricco di fiori e di piante, lasciamo di botto calura e polvere e il vocio dei bambini per trovare la pace e il silenzio della biblioteca, una grande stanza semplice e disadorna, ma piena di manoscritti e documenti antichi in lingua araba. Il bibliotecario, in un italiano scarno ma preciso, ci mostra compiaciuto trattati di astronomia, medicina, teologia, astronomia, tra cui un Corano miniato in pelle di gazzella del ‘300, un trattato di medicina con la descrizione della malattia in rosso e la diagnosi in nero, una tavola pitagorica del ‘400, e ci offre la descrizione dei nostri caratteri dopo aver saputo i nostri segni zodiacali. Sono pochi minuti ma intensi e per me pieni di domande, anche perché sono nel deserto, lontano dalle grandi città, in un caldo cocente, circondato da bambini che hanno anche leccato i piatti dove abbiamo mangiato e trovo un luogo pieno di libri e sapienza.
Il fondatore della scuola e della biblioteca è sepolto poco lontano, ma il sepolcro, circondato da un cortile pieno di malati e sofferenti che vi si recano in pellegrinaggio, in quel momento è chiuso.
Altri chilometri di pista per arrivare ad un ampio cratere con alcune dune e cammelli, ma abbiamo già visto tutto ed il ritorno è veloce e senza soste, allietato da una luce intensissima che accende il variopinto panorama dell’andata.
Arriviamo a Ourzazate in piena notte. Alcuni di noi rifiutano il ristorante greco e insistono nella cucina marocchina, ripagati da un’ottima tajine di carne e prugna.
La serata continua davanti ad una tenda montata su un piazzale, dove si festeggia un matrimonio, occasione di cibo, bevande, musiche e danze. Arrampicati sul tetto delle Land Rover assistiamo alla festa, come le decine di voyeur accalcati sulle pareti della tenda, a sfruttare ogni apertura.
Un poliziotto allontana gli spettatori ed anche noi chiudiamo la giornata.
Mercoledì, 30 settembre
Ormai la meta desiderata da tutti è Marrakesh, al di là dell’Alto Atlante, oltre le montagne più alte del Marocco, ma gli equipaggi di due jeep optano per una deviazione verso Telouèt, terra natale del Glaoui. Con molte curve ma con strada asfaltata raggiungiamo un altopiano chiuso tra montagne, verde e soleggiato, con al centro il villaggio e la mole enorme della Kasba, reggia del pascià, in molte parti in piena rovina. Lo è quasi tutta la struttura, ma il militare che funge da guardiano ci conduce nei sontuosi appartamenti interni, ancora ricchi di mosaici, di stucchi, di affreschi, in pieno contrasto con le rovine tutt’intorno. Dalle finestre ancora abbellite da gelosie e da inferriate arabescate e dalle terrazze del castello gustiamo scorci e panorami sulla campagna circostante.
Ripresa la strada, dopo aver scollinato con numerosi tornanti, raggiungiamo un villaggio ai piedi della montagna immerso in un sole autunnale, piacevolissimo, come lo è il pranzo nella terrazza interna di un ristorante, all’ombra di piante e pergolati, a base di agnello arrostito sulla brace.
Il resto della strada è una lunga dritta in una pianura ampia e verde, dove svettano anche dei cipressi, fino a Marrakesh, annunciata dal cartello e da un contemporaneo, intensissimo odore.
All’hotel ultimi accordi con gli autisti, che vogliono ricambiare con un invito a cena, presso le loro famiglie, le molte attenzioni che abbiamo avuto nei loro confronti.
Il nostro equipaggio è ospite di Aziz e la cena è a casa del suocero, dove mangiamo couscous e beviamo tè, conditi da imbarazzo e anche disagio, perché sotto lo sguardo attento e curioso dell’innumerevole famiglia. Solo con il tempo individuiamo e riconosciamo la moglie, i figli, i suoceri, i cognati mentre la televisione ci rimanda le scene via nastro del suo lungo e sfarzoso matrimonio, con la descrizione del minuzioso rituale arabo-berbero.
Quasi in contemporanea, sul piazzale davanti alla casa, scoppiano le grida e i tamburi di un matrimonio, dove amici e parenti dello sposo annunciano rumorosamente l’avvenimento a tutto il quartiere.
Una chiacchierata in francese con il cognato più intraprendente chiude la serata nella casa di Aziz, che poi noi suggelliamo ai bordi della piscina dell’hotel con birra marocchina, scambiandoci impressioni e sensazioni.
Giovedì, 1° ottobre
Una guida ufficiale, in giacca e cravatta, ci conduce subito alla Koutoubia, moschea e minareto, ma il giardino intorno è in degrado, anche per via dei lavori di restauro della moschea e dei dintorni. Non sono particolarmente impressionato, anche se da quel momento la torre sarà il mio principale punto di riferimento, per orizzontarmi ma anche per contemplarla, in contrasto con il cielo azzurro del giorno o rosso del tramonto, così come era la sua gemella di Siviglia. E’ l’unica vera emergenza della città, fatta di case e casupole basse e modeste, tutte dipinte di rosso, ma prive di una vera monumentalità. Il giro continua stancamente ed anche il palazzo della Bahia, per quanto notevole e raffinato, quasi mi delude, evocando il confronto schiacciante con l’architettura moresca dell’Andalusia.
Le spiegazioni della guida, già scarne e come svogliate, si rarefanno del tutto dopo un suo tentativo fallito di farci mangiare in un ristorante per turisti ad un prezzo molto salato. Così l’ingresso nella piazza Jemaa el-Fna, tante volte evocato e fantasticato nei libri e nei resoconti dei viaggiatori e degli amici, è anch’esso deludente, per l’implacabile sole del mezzogiorno che ha rarefatto le presenze nella piazza a pochi gruppi di venditori e incantatori, oltre sparuti gruppi di turisti come noi, oggetti di un assedio implacabile per comprare oggetti e monili, barattare magliette e pagare pose con serpenti e con variopinti e scampanellanti venditori d’acqua.
La veranda di un caffè per il tè alla menta e il pranzo è la soluzione migliore per rilassarsi e organizzare il resto della giornata.
Scartati musei e monumenti, la visita della Medina sembra soddisfare le aspettative di tutti e la guida, ormai rassegnata ad un magro guadagno, ci accompagna stancamente nel dedalo di vicoli, stracolmo di merci e di offerenti, di artigiani e di lavoranti. E’ avara di spiegazione anche alla Medersa Ben Youssef, dove scopriamo da soli le stanze degli studenti,
immaginandoci collettivamente la vita quotidiana di questa università, incredibilmente simile ai conventi benedettini, se non per il mihrab e i caratteri cufici delle iscrizioni. Se compriamo è perché incuriositi da cose piccole in legno o in metallo e la guida non prova neanche a condurci nelle rivendite previste quali tappe per acquisti guidati e remunerati.
Alle sei siamo di nuovo soli ma liberi di raggiungere una terrazza di un caffè in alto sulla piazza Jemaa el-Fna e riscoprirla piena di banchi e banchetti e bancarelle, a sorreggere pignatte e pentoloni, mescite e spacci di tajine, impasti, sughi, spiedini, brochette, intingoli, carni e pani e pesci, cotti su decine di griglie e fuochi di carbone, avvolti da nuvolaglie bizzose di fumo puzzolente di grassi e sapori.
Ed anche di carretti e carrettini stracolmi di tutti i semi vegetali commestibili o resi tali dall’intervento dell’uomo, oltre che di tutti i manufatti utilizzabili nella cucina e nella ristorazione, in legno metallo vetro e terracotta.
E poi stesate di maglie e magliette, calze, scarpe, giubbotti, mantelli, cappucci e tutto quanto utile a vestire o per lo meno coprire e proteggere e di utensili, marchingegni, apparecchi casalinghi e domestici, della misura compatibile con un tappeto o un’incerata o una coperta.
Ma anche ombrelloni o teloni non più a riparare dal sole ormai ma a definire uno spazio per venditori di polveri e medicine miracolose, imbonitori e affaristi e incantatori di serpenti e padroni di scimmie legate e irascibili, mentre i raccontatori di storie e i musicisti e gli affabulatori e i teatranti sono all’aperto, senza copertura, perché il cerchio di uomini intorno, solo uomini, attoniti, ridenti, cupi, meravigliati, divertiti, assorti è grande e cresce e si ritrae continuamente perché tutt’intorno a quest’arcipelago di concentrati di venditori, merci e supporti si agita un mare di gente, in perenne movimento.
Sopra questa babele, sullo sfondo rossastro del tramonto, svetta il minareto della Koutoubia con vicino il disco rosso del sole, mentre la piazza, gradualmente, si accende delle centinaia di luci necessarie perché quel formicolio di attività possa continuare per le ancora molte ore della notte.
Lascio a malincuore la terrazza e la piazza per il ritorno all’albergo, ma il domani è già pieno di speranze e aspettative.
Venerdì, 2 ottobre
Da soli, scremato il gruppo in una pattuglia audace, affrontiamo la città senza una guida, rifiutando ostinatamente le offerte di servizi e compagnia che ci vengono propinate ad ogni passo, a partire dalla porta dell’Hotel.
Oltre la Koutoubia gli offerenti si dissolvono e con loro anche richiami e insulti e raggiungiamo le Tombe Sadiane, con due grandi e raffinati mausolei, circondati da un piccolo cimitero che poi è anche un giardino, il tutto racchiuso da alte mura.
Ma è la Piazza ci attira inesorabile e con lei la solita veranda per il tè e il pranzo, ma dopo è ancora troppo caldo e la Medina, semivuota per la festa domenicale, è un buon rifugio, anche perché siamo ormai abili e capaci nel declinare offerte e servizi, non certo quelle del ragazzo che ci adotta quasi subito per poi accompagnarci, autoproclamatosi guida, consigliere, ispiratore, protettore.
L’atmosfera è oggi stranamente indolente e rilassata, senza grande concorso di gente e con scarso traffico anche di biciclette e di motorini che a Marrakesh sostituisco i somari e i muli di Meknès e di Fès.
C’è tempo anche di chiacchierare, mentre alcuni di noi tentano acquisti e impostano contrattazioni, con i negozianti che offrono volentieri le loro seggioline basse ed il loro francese.
Il pomeriggio è ancora troppo lungo e si torna in carrozzella all’albergo, per una doccia e un bagno in piscina.
Di nuovo in carrozzella, che poi è la stessa, per il giro delle mura, imponenti e ben conservate, illuminate dalla luce bassa del sole calante e ancora di nuovo a Jemaa el-Fna per la terrazza, il tè e lo spettacolo della piazza e del tramonto.
Questa volta ci si trattiene a lungo, sapendo che è l’ultima sera, dilungandoci anche dentro il flusso della gente e seguendo odori, suoni e colori.
Sabato, 3 ottobre
Sveglia all’alba perché l’Oceano è lontano e ormai si attraversa una terra piatta, senza rilievi o altre emergenze vegetali, capace solo di evocare meditazioni o di conciliare il sonno.
Il cielo è coperto e solo ad Essaouira si apre per un bel sole che mitigato da un venticello fresco e costante.
Il colore dominante è il bianco e bianca è quasi tutta la città, kasba, medina e ghetto, solo i bastioni ed il porto fanno da contrasto cromatico. Sui moli facciamo la nostra avventura gastronomica mangiando sardine e crostacei cotti sui carboni, per questa volta indifferenti ai principi dell’igiene e dell’arte culinaria.
La lunghissima spiaggia offre numerosi campi di foot-ball ai calciatori locali ma noi la sfruttiamo per una pigra passeggiata, gustando sole e vento e il panorama all’orizzonte delle isole Purpuraires, conoscendo un volto fino a quel momento insolito del Marocco, ma con la testa già impegnata al ritorno.
Lo stomaco mi giuoca brutti scherzi per tutta la giornata e non sono in grado di apprezzare la ricca cena a base di pesce in uno dei migliori ristoranti della città.
Domenica, 4 ottobre
Brutta levataccia per raggiungere in tempo l’aeroporto di Casablanca. Facciamo l’ultimo tratto marocchino, la solita costa appiattita dal vento dell’Oceano con paesi costruiti sulla strada, masserie e campi e pascoli sassosi, immersi in una pestilenziale puzza per il pesce acquistato dai nostri autisti per le loro famiglie, meditabondi per la fine del viaggio e attoniti per il sonno.
Lunga attesa di ore all’aereoporto per un’anticipazione del volo rivelatasi una falsa segnalazione dell’Agenzia Phèbus e poi aereo e volo fino a Fiumicino.
Pioggia e arrivo tardissimo a Perugia.
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