Tutto è cominciato quattro anni fa sul ponte di Blera, con sotto un canyon di rocce rossastre fittissimo di vegetazione, quasi un pezzo di giungla, fatta italiana dal ponte romano a tre arcate sul Biedano. Non fu il suo nome, Ponte del Diavolo, ad evocare smarrimento e sconforto nei primi soci di Naturavventura a cui proposi quella prima escursione, ma l’incredulità di poter percorrere un sentiero che non vedevano, perché non esisteva e la vera strada era il fiume, l’unica via possibile, anche se con l’acqua sopra i ginocchi.
A quella prima volta, fatta in pochi, è seguita una vera e propria esplorazione dell’Etruria, ormai senza smarrimento e sconforto, ma sempre, credo, con quella incredulità che si prova nello scoprire, nel proprio paese, a poco più di un centinaio di chilometri dalla propria casa, panorami, foreste, città e necropoli che si cercano ormai solo in paese esotici e lontanissimi.
Già a San Giuliano ci fu il primo contatto con le necropoli rupestri, le grandi tombe a dado immerse nella macchia, ma solo a Norchia fu possibile l’impatto violento di intere pareti di roccia organizzate in una scenografia funzionale, non tanto e solo al culto dei morti, quanto ad evocare nei vivi, nella città contrapposta, ammirazione e rispetto per il potere di quelle famiglie padrone di tali tombe.
Tutto è continuato con Sovana, trovandovi anche altre ma sempre forti emozioni nel cupo e nella profondità delle tagliate, nel dedalo delle vie misteriose della Cava di San Sebastiano e di altre che poi abbiamo percorso, a Sorano, a Monterano, accessi perenni a città ormai invisibili, se rimaste etrusche, ricche e affascinanti se poi furono medioevali e rinascimentali.
Anche se poi a San Giovenale e a Luni sul Mignone, quelle tracce urbane ci apparvero evidenti, chiare anche se nella loro essenzialità di fondazioni, di pavimenti, di soglie, di pozzi e di canali.
Tutte le città le abbiamo dovute immaginare, sui pianori enormi come a Tarquinia, suggerite appena da tratti di mura e da fondazioni di templi, su larghi scogli di tufo, le cui pareti a strapiombo erano nello stesso tempo mura di difesa e fondazioni di case, come a Pitigliano o addirittura dentro macchie quasi impenetrabili, cresciute tra i vicoli e le case distrutte, le cantine ormai grotte nella selva, i capitelli, gli architravi, le macine ormai strani massi tra tronchi, foglie e cespugli.
Questo fu a Castro, in un dicembre caldo e luminosissimo.
Ma le città sono state per noi anche vive e pulsanti, piene di gente e di attività, dove le antiche tracce etrusche si sono mantenute (anche in splendidi musei) e integrate a resti e testimonianze più recenti, ma non per questo meno suggestive: Tarquinia, Civita Castellana, Tolfa, Tuscania, Bolsena.
A Cerveteri abbiamo però visto anche un’altra città, intatta nelle sue vie, nelle sue piazze e negli incroci ed anche nelle case, con una organizzazione urbana perfettamente decifrabile e percorribile, non solo l’impianto di superficie, ma anche quello organizzato nelle viscere della terra, nella profondità delle tombe ipogee, arredate da decori ed intarsi nel tufo.
Un addentrasi nel sottosuolo preparato, prefigurato dalla città necropoli, reso quasi razionale, mentre, alcuni mesi prima, a Tarquinia, l’incredibile e commovente ricchezza sotterranea di colori e immagini si era rivelata, in modo improvviso, sotto un terreno brullo e anonimo, non suggerita neanche dalle parole e dai resoconti di antichi e recenti visitatori, né da foto e dipinti, troppo forte l’impatto dei propri occhi, delle proprie teste ed anche dei propri visceri.
Ma sono stati i fiumi, le loro valli scavate nel tufo, ferite profonde dell’altopiano lavico, a favorire e caratterizzare la nostra esplorazione.
Sono stati occasioni di contatto con una natura rigogliosa di verde, di acqua, di animali ed anche di insediamenti umani, possibilità di scampoli di avventura per i guadi, le discese dai bordi di lava, le arrampicate sui cigli delle tombe, in una regressione totalmente adolescenziale, sempre pronta a trovare alibi di razionalità nelle stratificazioni geologiche, nella datazione dei siti, nell’individuazione degli stili e ne’identificazione dei reperti archeologici.
Nella realtà è stato il rapporto con la sacralità dell’acqua ad emozionarci nella Valle del Fiora, sotto Vulci, insieme al sacrilegio di quel ponte ardito e antichissimo dell’Abbadia, le pareti di tufo arabescate dai depositi calcarei a contrasto con i grandi massi neri del letto del fiume; così nella Valle del Vesca, dove l’intrico della vegetazione era permeabile solo grazie ai passaggi aperti dai cinghiali e dalle vacche maremmane, era sempre e solo il fiume a comandare il senso di marcia, sempre lui ad obbligarci a risalire sul pianoro, quando le rapide e le strettoie diventavano disumane; ancora l’acqua del Fosso della Mola, nel tragitto verso Cerveteri, questa volta in cascate altissime dalle basi di ghiaccio e in laghetti coperti da cupole di querce secolari.
E infine sempre l’acqua, questa volta calda e sulfurea, protagonista di quel cerimoniale di fine anno, nel buio di sere invernali di poco prima Natale, a Saturnia e poi a Viterbo, a vivere con tutto il corpo, non solo con gli occhi e la testa, la regressione domenicale e ridare spazio e dignità al gioco, dopo la fatica delle escursioni.
Portati dall’acqua siamo arrivati dove arrivano tutti i fiumi, bloccati dalla contemplazione e dallo stupore, sempre infantile, che ogni essere umano prova di fronte al mare.
L’abbiamo avvistato una prima volta, uno spicchio di luce più che altro, appena usciti dalla macchia prima di Cerveteri, per poi avvicinarlo a Pyrgi e alle Saline di Tarquinia, per poi cogliere pienamente i rimandi di luce e di colori, linee di costa, scogliere a picco e dune sabbiose da San Rabano, da Cala di Forno, dalla Torre della Bella Marsilia, dalla Piana dei Cavalleggeri: dall’ Uccellina insomma.
Eravamo a quel punto, pur senza riferimenti visibili di vita materiale, di fronte al vero prolungamento dell’Etruria, ad un territorio effettivamente a lungo dominato dagli Etruschi, per garantire traffici e commerci, scambi di cose e di idee e alimentare così quel retroterra tutto terrestre e permettere la costruzione delle città, dei villaggi, dei ponti e delle strade, di arredare case e palazzi, decorare camere e tombe, di manipolare oggetti, pensieri e uomini.
Nella nostra esplorazione abbiamo potuto cogliere le tracce di tutto questo, anche se evidenti ed evocativi, ma anche i segni e i simboli della continuità della vita umana, animale e vegetale su quella crosta di lava, incisa dall’acqua dei fiumi.
Me lo ricordava il disco rosso del sole che tramontava sul mare dell’Uccellina, con vicini gli amici di Naturavventura.
19 giugno 1990
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