Ricordi di un viaggio (di nozze) Gennaio 1988

– Volete andare a Cuba e non conoscete la Sicilia? –

Sicilia sia!

E’ un viaggio, le nozze ne sono l’antefatto, non ci sono né iniziazioni né scoperte, per lo meno quelle di una tradizione o di luoghi comuni, non è neanche il primo viaggio insieme, ma lo è invece la Sicilia, una novità per Anna Maria e (quasi) per me.

L’altra volta i pinnacoli di roccia di Punta Raisi mi evocavano giganti e polifemi, anziché disgrazie ed accidenti, ed il vento e il caldo insieme ricordavano l’isola del sole, mentre questa volta in un viaggio notturno via mare la cabina sembra essere, ma forse lo è, sotto le caldaie della nave. Il rumore, il caldo, l’aria pesante ci spingono sul ponte, masticando travel gum, per smaltire una cena in perenne movimento prima sulla tavola ed ora nello stomaco. Lo scendere nel ventre della nave per una chiamata di servizio, ma soprattutto l’impossibilità di ritrovare l’ascensore per recuperare rapidamente aria fresca ed ampie visioni, provoca l’irreparabile e con i conati si dilegua ogni piacevolezza di viaggio.

L’intera mattinata a Palermo è tutta d’albergo per il recupero dell’equilibrio vestibolare, ma nel primo pomeriggio Pippo  simboleggia la svolta, aiutato da un clima incredibile, che a gennaio permette un aperitivo all’aperto e un lungo chiacchierare sulla (ex) nuova sinistra palermitana ai tavolini di un caffè, anche se Pippo è in imbarazzo e in pena per una donna, forse ex o in procinto di diventarla. E’ come se fossero separati in casa e la casa è sui tetti della Vucciria, arredata con gusto e semplicità, un’isola di mattoni e calce messi a modo in un mare di degrado, a testimoniare che tutto è possibile, com’è anche possibile l’ambulatorio medico popolare che Pippo e Angelo e altri portano avanti nel quartiere, vicino alla fontana che perde quasi ogni notte sbarre della cancellata per la richiesta di piedi di porco ed il busto nobiliare incastrato su una facciata di fronte è sempre sul punto di andarsene con nuovi padroni. Resta da più di un secolo una vendita di poche cose e mescita di vino, né bar né caffè né bottega, spazio sociale indefinito, carboneria antica dei Fratelli Paoli ed oggi forse ancora sede di cospirazioni, ma con chi e contro chi non è dato sapere e noi non lo chiediamo.

Pippo è di casa alla Vucciria, tanti lo salutano e gli chiedono ed una mano si allunga da un banco a stringere un pugno d’olive verso di noi, perché siamo in sua compagnia. D’altronde senza di lui non avremmo mai avuto né la voglia né il coraggio di entrarci.

Si va a cena a Sferracavallo, ma tutto sembra andare all’aria perché la macchina ha i vetri fracassati. “Quale macchina?” fa Pippo, perché non pensiamo che il rottame vicino all’auto derubata sia la sua, ma un’auto abbandonata, roba da carro attrezzi. Ed è la macchina con cui partiamo, motore sovraregistrato, cinture di sicurezza strappate, finestrini inamovibili.

Al Delfino la cena non è come quella d’alcuni anni fa, esito finale di un corso d’educazione sanitaria con l’AVIS, memorabile, per un terricolo come me, per la rassegna pressoché inesauribile di pesce, fino all’evento clamoroso dell’aragosta avanzata sui piatti di portata.

Ma si mangia sempre alla grande, Angelo è cortese, la donna di Pippo è piacevolissima e Pippo è anche troppo gentile, anche perché ci ha descritto le sue ultime iniziative a favore d’animali, canili, ricoveri, campagne d’opinione ed anche dimostrazioni violente contro donne impellicciate e neanche una parola, un accenno, una battuta nei confronti di Anna Maria, immersa nella sua pelliccia di lupo. Graziosissimo.

Il cedro appoggiato sulla mano aperta ostentato da Pippo è come fosse il lasciapassare per entrare a Villa Igea e non invece buoni vestiti, essere conosciuti e conoscere e molti soldi.

“Un piatto, un coltello…e dello zucchero! ” è la richiesta di Pippo ad un cameriere sufficientemente attonito, per niente rassicurato dal successivo desiderio di due caffè, anche se siamo in un bar, discreto nella luce che accarezza bei mobili di stile e piacevole per una musica da piano bar, ma essere gli unici clienti ci favorisce ed io posso uscire a visitare il giardino scosso dalla brezza marina.

E’ notte fonda e il cedro è il pretesto per continuare dopo Sferracavallo anche se le cose da dire non sono più molte, ma Palermo è anche Villa Igea e anche in questo caso senza Pippo non ci saremmo mai entrati.

Partiamo solitari alla conquista di Palermo, non è certo la prima grande città che visitiamo, abbiamo anche la guida ed in testa una sola raccomandazione, che ci accompagna da Perugia: evitate la Kalza. Lo immaginiamo un quartiere lontano, immediatamente evidente per degrado e atipicità rispetto al resto della città e così, dopo l’oro della cupola, mentre gironzoliamo alla ricerca del lungomare, che sulla carta turistica è un roboante Foro, quasi per caso leggiamo sul muro la targa Piazza della Kalza ed allora, vicinissimi uno all’altra, strascicando lentissimamente i piedi su una strada che ha perso improvvisamente il selciato, guadagnando in polvere sassi e cartacce, in un deserto totale che noi non attribuiamo al pomeriggio di domenica, ma al necessario silenzio che precede un agguato, sentendoci spiati da mille occhi, svoltiamo l’angolo immediatamente più vicino, rasentiamo un lunghissimo muro su cui si appoggia una impalcatura che ci sembra lì da secoli, tanto è arrugginita e visibilmente inutilizzata, per sboccare in una piazza che, anziché come soluzione urbanistica, sembra creata quale aiuola di una gigantesca magnolia, le cui radici, non tanto i lunghissimi rami, alte da terra come muri, sembrano allungarsi fino all’Amazzonia. Il manifestato interesse botanico, che poi non è altro che la sublimazione della paura fino allora dominante, crolla di colpo alla vista di un uomo che sta cacando tra quelle radici, neanche troppo lontano da un gruppo d’altri uomini, raccolti intorno ad un tavolino per un ipotetico gioco collettivo, che alla nostra vista perde immediatamente d’interesse. Rasentando, sempre rigidi e sempre vicinissimi, una bellissima cancellata che circonda il giardino, ignorando le perdite pesanti da lei subite nel corso degli anni, che ne hanno vanificato ogni capacità protettiva, cercando di porre spazio tra noi e tutto questo, cogliamo il movimento lentissimo, quasi impercettibile, di una millecento nera stracolma d’uomini che viene verso di noi, sul lato opposto della strada e alla nostra altezza ci supera di poco, per tagliare la via e fermarsi dietro di noi. L’apertura della portiera è per me motivo più che sufficiente per sussurrare ad Anna Maria, ma è come se gridassi: “Adesso io attraverso di colpo la strada, seguimi e poi corri!” e poi in apnea oltre chiese e palazzi fino ad una cabina telefonica per chiedere con voce strozzata a Pippo: “Che fai oggi pomeriggio?”.

La mattina dopo l’auto fila veloce verso Castellamare del Golfo, con Palermo ormai alle spalle e con lei Pippo e un pomeriggio passato arrancando per altopiani sassosi, colline nude d’alberi e con rari casolari, un panorama luminosissimo, ma reso tenebroso dai discorsi sulla lupara bianca a proposito di una casa e di un nome conosciuto, per raggiungere anche il Duomo di Monreale dove Pippo è di casa, tutti lo salutano, qualcuno lo presenta con tanto di patronimico e poi Portella della Ginestra, ma è già quasi buio e a Piana degli Albanesi è tutto bilingue e il cannolo siciliano che mangio è il meglio della vita mia. A buio pesto, in un rifugio quasi alpino al bosco della Cucuzza, beviamo vino rosso e facciamo conoscenza con gente del CAI palermitano, che sta facendo baldoria dopo un’escursione nei dintorni, di cui per il buio non percepisco né vedute né profili. La giornata era finita così anche se era stata chiusa veramente con una pasta con le sarde in una trattoria palermitana.

C’è il mare, intenso come nessun altro visto prima, senza nessuna trasparenza, anche perché si è in alto, sopra Scopello, sopra San Vito lo Capo e poi sopra Erice, ma è nebbia ora, un’ovatta fredda e pungente, che attutisce vicoli, case, torri, pronai e portali, fa umide le pietre ed esalta i passi sul selciato di sassi riquadrati.

La sera il ristorante e poi l’albergo attirano come un rifugio alpino. A cena, unici clienti, sgomentiamo il cameriere con la richiesta, che sembra assurda e inopportuna, di avere per frutta arance siciliane. Siamo in inverno e in Sicilia, per giunta.

La mattina il sole è di nuovo padrone del mondo e la vista sottostante di Trapani, del mare e dell’entroterra siciliano mi fa urlare a perdifiato il nome dell’isola, come fossi il Gattopardo.

Non urlo più a Segesta, ma perché sono attonito, sbalordito per quel pezzo di civiltà ormai parte integrante della natura, anche selvaggia, senza apparire comunque un rudere, nonostante manchi il tetto del tempio e i suoi annessi artificiali. La geometria delle linee ne fa ancora opera dell’uomo, ma non più il colore assunto dalla pietra lavorata e neanche la sua collocazione, tra le agavi, a picco sul burrone sottostante. Avverto un brivido di vertigini e sento il gracchiare delle cornacchie dei Taviani.

Anna Maria compare e scompare tra le colonne. Siamo gli unici esseri umani presenti e anche al teatro il risuonare di suoni è solo quello prodotto dai nostri passi e dalle nostre voci.

Dalla scalea di pietra si coglie nell’ampia vallata sottostante il lungo serpente delle campate della superstrada.

E’ proprio la superstrada che ci fa correre veloci verso il Belice ma quando incontriamo il cartello di Gibellina mi fermo più volte, perché la carta stradale la segnala altrove. Ci mettiamo un po’ a capire che quello che vediamo è il nuovo paese costruito dopo il sisma, non ancora riportato sullo stradario, e così arranchiamo verso le vecchie rovine, verso una distruzione totale mai vista prima, fino allora inimmaginabile e le grandi colate di cemento che attraversano i ruderi mi appaiono come la necessità di coprire cadaveri e fetori e le impalcature di tubi Innocenti sopravvivenze dell’emergenza. Solo più tardi li scoprirò come messaggi di Burri e strutture teatrali di festival famosi.

Ma altrettanto incomprensibile è la ridondanza artistica del nuovo paese, quasi una riparazione o l’espiazione di un senso di colpa, tardivo per giunta, che non compensa le perdite e le devastazioni, non solo del terremoto, e a cui non sopperisce neanche il nuovo disegno urbano, che appare, a noi turisti, troppo freddo e razionale. Figurarsi agli abitanti.

E’ quasi buio a Caltabellotta. Cogliamo l’attimo dell’accensione delle lampade pubbliche ed è subito presepe. Leggerò più tardi e lontano da qui di mafia e di tragedie, ora è la magia di un anfiteatro di roccia ricoperto di case arroccate una sull’altra, mentre un ventaglio pietroso in alto, libero di manufatti ma non di pinnacoli, ripara il paese da un vento gelido che a noi arriva di traverso, facendoci rabbrividire.

Resistiamo a lungo ma alla fine il freddo ci spinge verso il mare, alla ricerca di tepore e di un albergo. A Sciacca troviamo anche uno splendido couscous di pesce.

Ho già visto molti scavi che hanno riportato alla luce resti, fondamenta, pavimenti, selciati, mozziconi di case e su questi anche emergenze architettoniche vere e proprie, miracoli d’equilibrio e velleitarie ostentazioni di potenza, grandi scheletri di laterizi ancora parzialmente ricoperti di squame di pietra e di marmo, fino a resti che per la loro purezza di linee hanno riconquistato un altra dimensione e un’altra completezza. Mai cumuli di colonne o di rocchi, di capitelli, di pietre squadrate, di scalini, come fossero depositi provvisori di cantieri o ingorghi di rifiuti trascinati da un’immensa potenza. Mai ammassi ciclopici di pietra lavorata, regolare anche nella scomposizione prodotta dalla caduta, rottami concentrati in grandi gruppi e dispersi su una spianata oggi di sabbia e d’agavi. E poi mai in vicinanza del mare, senza essere un piccolo avamposto militare o un porto commerciale, ma un’intera città con un grande corredo di zone sacre, arredi civili, fortificazioni, pavimentazioni.

Il mare fa da cornice e da sfondo, riflette la luce e il caldo, offre a Selinunte una pace oggi finalmente possibile, avendo la città pagato un altissimo prezzo, anche se ignoro se alla natura o agli uomini.

Soffia una brezza delicata, che scompone leggermente i capelli, la stessa che soffia nella Valle dei Templi ad Agrigento ed anche lo stesso sole, ma l’atmosfera è un’altra, i templi sono forse più belli e armoniosi, ma ci si sente stretti, condizionati, senza le viste amplissime di Selinunte. Bisogni di turisti.

La sera in alto, nella città medioevale, una fredda tramontana taglia il viso, rendendo deserte e quasi spettrali le vie e gli slarghi, fortemente illuminati, nei pressi della Cattedrale e del Seminario.

Enna è un’isola rocciosa in un mare di colline rase d’alberi e riquadrate di colori. Dalle mura a strapiombo, dalle torri e dai terrazzamenti cogliamo panorami a tutto giro, con spruzzate di case su altri toppi. Ma è come se la città fosse prigioniera della sua posizione imprendibile ed egemonica, che ne ha favorito e condizionato lo sviluppo, costringendola al dominio, ma anche al rinserramento su sé stessa. Sono sensazioni che non posso condividere con nessuno, non solo per la mia timidezza o condizione fugace di turista, ma per l’assenza totale d’interlocutori, come se gli abitanti avessero abbandonato la città a favore d’altri lidi più trafficati e meno severi. Ma è solo domenica pomeriggio e d’inverno. Il senso di solitudine che mi prende è totale e lo vinco trasmettendolo a parole ad Anna Maria, nella contiguità dell’auto in fuga.

Gli scricchiolii della copertura in plexiglas, sollecitata dal calore del sole, si mescolano con il garrire, a volte frenetico, dei passeri e accompagnano i nostri passi sulle pensiline aeree, sospese tra i resti della villa del Casale.

La luce è dovunque, prepotente, e accende, come sotto dei riflettori, i colori, le curve, le forme, le espressioni delle figure umane e animali dei mosaici. La loro bellezza ed espressività li esclude come pavimenti, apparendo inconcepibile il calpestio, anche di piedi nudi e anche di leggerissime fanciulle, annulla il loro valore d’uso e rende impossibile la comprensione, perché inutile e superflua, dell’avvicendarsi di terme, palestre, spogliatoi, atri, vestiboli, sale, camere, troppo conquistati da cacciatori, aurighi, fanciulle, belve e fiere africane, rappresentati in una successione filmica, virtuale anche se non irreale.

La vicina Piazza Armerina è già immersa nel precoce buio invernale quando usciamo dall’albergo e, in attesa della cena, chiuse chiese e ricettacoli turistici, siamo costretti a leggiucchiare in un bar, io anche a sbevazzare un Averna. La città sembra contenuta in poche vie e piazze, per di più deserte come sembra deserto anche il circolo civico, tranne pochi uomini anziani.

Facciamo fatica a capire dove possano essere le migliaia d’abitanti, i giovani soprattutto. Sarà il sole, il giorno dopo, ad illuminare la parte della città oltre il centro storico e con essa lo struscio, il passeggio, i giochi, i ritrovi, le pizzerie, i gruppi di ragazze ammiccanti e i ragazzi ammiccati o anche distratti e scoionati. Sarà lì che mi ingozzo di fino allora sconosciute panelle.

Niente ci sembra attirare a Comiso, se non il nome e la fama di Gesualdo Bufalino e forse la segreta speranza di incontrarlo. Non c’è (e perché mai?) nel bar sulla piazza dove parcheggiamo, dove invece troviamo un cattivo caffè e il solito deserto d’uomini e di donne, a cui facciamo fatica ad adattarci, perché ci appare ancora incomprensibile, soprattutto in un’ora centrale come questa.

Svogliati, ci aggiriamo per un breve giro, strascicando i piedi per farci compagnia, ma veniamo subito incuriositi da una impercettibile ma evidente peregrinazione delle poche persone incontrate, tutte attirate da un’unica direzione e tutte ingoiate dalla porticina laterale di una grande chiesa.

Oltrepassata anche noi la soglia guardiamo e veniamo guardati da centinaia d’occhi. Tutto il paese è lì dentro, intento in un lungo e condiviso cerimoniale religioso. E’l’11 gennaio, anniversario del terribile terremoto del 1693 e tutti sono lì a ricordare, a commemorare, ad esorcizzare, a ringraziare, a pregare. Una memoria che riempie quell’apparente deserto, per una volta rendendo comprensibili le sue dinamiche sociali anche a turisti frettolosi e superficiali, come noi.

Il Grand Hotel Villa Politi a Siracusa è immerso nella Latomia dei Capuccini, tra pareti di pietra bianca tagliata che permettono e proteggono anche un lussureggiante giardino. Una grande scala si alza dalla hall con ampie volute verso i piani superiori, con ostentazione di legni e d’ottoni. Il parquet scricchiola sotto i piedi e la finestra della camera è deformata dall’umidità e dagli anni, ma si respira l’aria di un grande hotel, anche se oggi declassato e bisognoso di restauri.

La ricerca di un ristorante per la cena favorisce la scoperta improvvisa e imprevista della Piazza del Duomo, bagnata dalla pioggia e vuota d’auto e passanti. I lampioni esaltano le scene barocche dei palazzi e la monumentalità delle dimore religiose e civili, ma soprattutto emergono, per un gioco di chiaroscuri, le colonne doriche del Duomo, svelando la sua origine e la sua antica funzione, inutilmente mascherata dalla ridondanza della facciata. Sarà l’interno, il giorno dopo, nonostante la luce piena, a riconfermare in una penombra quasi cupa, con le sue gigantesche colonne greche la sua natura, lontana ed estranea da quella attuale, compresa la cella del tempio, per quanto traforata dagli archi. La statua di Santa Lucia, immagine moderna di Atena, esposta eccezionalmente quel giorno, ci risarcirà con una luminosità prepotente, resa quasi abbagliante dagli argenti del paliotto.

Il vecchio è immobile sotto la pioggia, solo gli occhi sono mobilissimi, come una sentinella greca del castello Eurìalo. Ma bastano le nostre prime incertezze sul percorso e sull’orientamento per animarlo nel corpo e nella lingua, pronta a dichiararlo servitore, guida, lume, testimone, augure di felicità e figli maschi, sapute o estorte le poche, essenziali notizie su di noi.

Privi di qualsiasi potere contrattuale, se non il ricorso (per noi contro natura) alla sgarberia o all’arroganza, sedotti dall’eloquio velocissimo e ricco, accompagnato da un’altrettanta ricca gestualità, diventiamo testimoni di una lunga pantomima dei possibili agguati, delle difese nascoste, dei mille trabocchetti grazie ai baluardi occulti, ai passaggi mascherati, al labirinto complesso e articolato delle muraglie a tenaglia, dei profondi fossati, delle caserme, delle torri. Senza il vecchio tutto sarebbe rimasto incomprensibile ma soprattutto inanimato, freddo, muto. Senza di lui ci saremmo rapidamente allontanati da una successione di filari di pietre battute dalla pioggia e avvolte in un pulviscolo di freddo e umidità, nella testa le certe ed essenziali note della guida del Touring Club, ma non le dissertazioni, le ricostruzione, le ipotesi e le suggestioni di quel siciliano testardo e fantasioso.

Non c’è invece nessun vecchio a Pantalica, manca anche la pioggia, il cielo è plumbeo e gonfio di nuvole e così la luce si spalma grigia sulle pareti della gola di pietra, un alveare di tombe, tutti riquadri accecati a traforare le pareti di roccia. Faccio la valle di corsa a ricercare sensazioni più che capire, mancando un vecchio a farmi da guida ed essendo Anna Maria altissima sul ciglio del canyon.

Ritorno sudato e ansimante ma ho volato di nuovo come le cornacchie dei Taviani.

Dopo un pomeriggio speso a sperimentare possibili approcci all’Etna, vanificati dalla neve, dal freddo, ma soprattutto da un nebbione fittissimo, un peccato di gola ci salva la vita e mi fa pensare che il mio angelo custode sia grassottello e di bocca rotonda.

A Zafferana Etnea prolunghiamo di una buona mezzora la sosta in una rosticceria, convinti dal pizzarolo a rinunciare a tortine già pronte, da lui giudicate banali e scontate, rispetto alla prossima sfornata di tranci e arrotolamenti di pastasfoglia, conditi con melanzane e mozzarella e decorati a scelta con alici, olive o capperi.

L’attesa viene così premiata, ma soprattutto ci permette di arrivare con il giusto ritardo al luogo di una maxi-tamponamento di auto sull’autostrada Catania-Taormina, con relativo accrocchio di auto, lampeggiamenti turchini e sirene ululanti.

Attoniti e meditabondi veniamo rincuorati dal viso ridente della maître dell’albergo Villa Fiorita a Taormina e dall’annuncio ” Siete i nostri unici ospiti!”, come premessa a piena disponibilità di camere e assoluto silenzio.

A cena mangiamo male e banalmente, ma io lecco anche i piatti, come rinato.

La nuvolaglia ci impedisce di cogliere l’orizzonte del mare, rendendo improduttivi i terrazzamenti, i mirador e le piazzole faticosamente conquistate attraverso ripidi saliscendi ed erte scalinate.

Il sole non arriva mai ad illuminare la vegetazione lussureggiante dei giardini e dei bordi del fittissimo abitato e il teatro greco, privato della scena dell’Etna, ci offre solo grigi laterizi, anche se monumentali.

La città ha bisogno di luce e di gente, per essere all’altezza della sua fama, e d’inverno è come una matura signora senza trucco.

Non ne siamo particolarmente rammaricati, anche perché è solo una tappa, l’ultima addirittura e ci portiamo dentro i soli e i mari e le città di tutti i giorni precedenti.

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